Del Comitato di crisi istituito dall’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga per gestire il rapimento di Aldo Moro fanno parte Steve Pieczenik, funzionario della sezione antiterrorismo del Dipartimento di Stato americano, il criminologo Franco Ferracuti (iscrittosi alla P2 nei giorni del rapimento Moro, e assertore della tesi secondo cui le lettere dello statista democristiano sono state scritte da persona affetta da «demenza»), e dei docenti universitari non proprio esperti di antiterrorismo, fra cui il direttore generale dell’Istituto per l’Enciclopedia italiana. Cosa ci facciano questi illustri signori in un «Comitato di esperti» non si è mai saputo.
Svela l’ex magistrato Ferdinando Imposimato: «Cossiga, su sollecitazione di Licio Gelli, inserì nel comitato di crisi del Viminale, che gestì il caso Moro in senso contrario alla sua salvezza, affiliati alla P2 tra cui Federico Umberto D’Amato, già capo del disciolto ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno (tessera numero 554), Giulio Grassini, capo del Sisde (tessera numero 1620), Giuseppe Santovito, capo del Sismi (tessera numero 1630); Walter Pelosi capo del Cesis (tessera numero 754), il generale Raffaele Giudice, comandante generale della Guardia di Finanza (tessera 535), il generale Donato Lo Prete, Guardia di Finanza (tessera 1600), l’ammiraglio Giovanni Torrisi, capo di Stato maggiore della Marina (tessera numero 631). Ancora: il colonnello Giuseppe Siracusano (tessera numero 1607), il prefetto Mario Semprini (tessera numero 1637), il professore Franco Ferracuti (tessera 2137), agente della Cia e consulente personale del senatore Francesco Cossiga, il colonnello Pietro Musumeci dell’Arma dei Carabinieri, vice capo del Sismi (tessera 487)».
Fra i membri del terzo Comitato, Pieczenik è sicuramente il personaggio più autorevole. Ufficialmente è stato mandato da Washington per lavorare gomito a gomito col governo italiano per fare liberare l’ostaggio. In quei giorni il funzionario del Dipartimento di Stato si rende conto che molte cose non girano come dovrebbero: a cominciare dalla fuga di notizie sulle informazioni riservate che devono restare all’interno dello stesso Comitato. Trent’anni dopo, il funzionario dell’antiterrorismo statunitense rivela il ruolo devastante della politica italiana e di quella statunitense nella vicenda Moro.
Pieczenik descrive una riunione operativa organizzata da Cossiga per elaborare una strategia sulla liberazione dell’ostaggio: «Ci ritrovammo in questa sala piena di generali e di uomini politici, tutta gente che conosceva bene Aldo Moro. Alla fine ebbi la netta sensazione che a nessuno di loro Moro stesse simpatico o andasse a genio come persona, Cossiga compreso. Era lampante che non stavo parlando con i suoi alleati». E ancora: «Dopo un po’ mi resi conto che quanto avveniva nella sala riunioni filtrava all’esterno. Lo sapevo perché ci fu chi (persino le Br) rilasciava dichiarazioni che potevano avere origine soltanto dall’interno del nostro gruppo. C’era una falla, e di entità gravissima. Un giorno lo dissi a Cossiga, senza mezzi termini. “C’è un’infiltrazione dall’alto, da molto in alto”. “Sì”, rispose lui, “lo so, da molto in alto”. Quanto in alto, non lo sapeva, o forse non lo voleva dire. Così decisi di restringere il numero dei partecipanti alle riunioni, ma la falla continuava ad allargarsi, tanto che alla fine ci ritrovammo solo in due, Cossiga e io. Ma la falla non accennò a richiudersi».
Le dichiarazioni del funzionario americano sono gravissime perché – in merito alla fuga di notizie – tirano in ballo direttamente Cossiga. Leggendo attentamente le lettere che Aldo Moro scrive dalla prigionia si deduce che le responsabilità di quel rapimento le attribuisce al suo partito. La Dc e tutti i partiti di governo, insieme al Pci, votano praticamente all’unanimità la linea della fermezza: nessuna trattativa con le Br. Con i terroristi non si scende a patti, a qualsiasi costo. Solo il Psi, i Radicali e qualche esponente del governo come l’ex presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e l’ex presidente del Consiglio Amintore Fanfani, sposano la linea della trattativa.
L’8 aprile Aldo Moro scrive: «Naturalmente non posso non sottolineare la cattiveria di tutti i democristiani che mi hanno voluto nolente a una carica, che, se necessaria al Partito, doveva essermi salvata, accettando anche lo scambio dei prigionieri. Sono convinto che sarebbe stata la cosa più saggia. Resta, pur in questo momento supremo, la mia profonda amarezza personale. Non si è trovato nessuno che si dissociasse? (…) E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro».
Su Andreotti il giudizio diventa sempre più sprezzante: “Regista freddo, imperscrutabile, senza dubbi, senza palpiti, senza mai un momento di pietà umana. È questo l’on. Andreotti del quale gli altri sono stati tutti gli obbedienti esecutori di ordini (…) Andreotti è restato indifferente, livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria”.
Intanto sul fronte delle indagini si registra il più completo marasma. Ufficialmente perché lo Stato – abituato a combattere fino a quel momento il terrorismo al Nord – non è preparato a fronteggiare le Br nel Centro Italia. Sostanzialmente perché quella disorganizzazione – come dice qualcuno in commissione Moro – appare fin troppo organizzata. Per individuare dove è nascosto Moro, dal Nord viene spostato un contingente di dieci carabinieri del reparto di dalla Chiesa, alle direttive del generale Bozzo. Uomini super addestrati che però vengono risucchiati in una situazione davvero surreale.
«In occasione del sequestro Moro», dichiara il generale Bozzo alla commissione, «ci siamo trovati in questa tragica situazione, e io, che ero il coordinatore, non coordinavo più niente, perché c’erano ben quattro livelli tra me e la periferia: le notizie pervenivano frammentate, soppesate, ma soprattutto ritardate». Bozzo parla di un grumo di potere annidato all’interno dell’Arma e appartenente alla P2.
In commissione Moro, il senatore Libero Gualtieri, rivolgendosi a Bozzo dichiara: «Lei dice che, arrivato a Roma, praticamente non le hanno fatto fare niente, tanto che, non sapendo cosa fare, se ne andava al cinema il pomeriggio. Ora, in pieno rapimento Moro, vengono dieci carabinieri con il comandante del Nucleo più esperto dell’antiterrorismo da Milano, si incontra con un altro Nucleo dell’antiterrorismo a Roma, e non gli fanno fare niente… ».
Bozzo: «Abbiamo fatto una sola perquisizione. Nel pomeriggio non avevamo nulla da fare, non avevamo un riferimento, non avevamo una persona che ci guidasse».
Libero Gualtieri: «O c’è stato un complotto, per cui si è deciso a qualsiasi livello politico, amministrativo, che Moro non doveva essere cercato, oppure c’è stato un livello tale di confusione e di marasma, di incapacità, che non c’è stato bisogno di un complotto». E incalzando: «In un libro della famosa giornalista inglese Alison Jamieson si parla di un esperto di terrorismo inglese, il generale Head, il quale afferma che una qualsiasi polizia mediocre avrebbe trovato Moro effettuando delle normali investigazioni».
Luciano Mirone
2^ puntata. Continua.
(tratto dal libro di Luciano Mirone “A Palermo per morire. I cento giorni che condannarono il generale Dalla Chiesa – Castelvecchi editore)
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