Immaginate questa scena. Una camera da letto. Riverso sul letto, morto da diverse ore, Attilio Manca, 34 anni, urologo di Barcellona Pozzo di Gotto, l’allievo più brillante del prof. Gerardo Ronzoni, una delle più autorevoli figure nel campo dell’urologia nazionale e internazionale. Già nel 2004 – quando ancora si opera con i sistemi tradizionali – Attilio Manca è uno dei pochi medici italiani ad operare mediante la laparoscopia, un sistema meno invasivo per gli interventi alla prostata di quelli del passato. Un particolare quest’ultimo che bisogna tenere presente per capire compiutamente questa storia.

Il corpo è pieno di sangue fuoriuscito sia dal naso che dalle labbra e dalla bocca, ma anche pieno di lividi. Sul polso e sul braccio sinistro ci sono i segni di due buchi provocati da altrettante siringhe ritrovate all’interno dell’appartamento. Solo due buchi: sul polso e sul braccio sinistro. Nel resto del corpo non ci soni altri buchi. Il letto è in ordine. Il piumone e le lenzuola sono sistemati. La casa è ordinata e pulitissima. C’è la pompa di calore sparata al massimo e il televisore, forse non a caso acceso (e poi vedremo perché), ma con l’audio silenzioso. Su una sedia si trovano solo un paio di pantaloni di Attilio, il resto degli indumenti indossati non si trova neanche a rovistare l’appartamento da cima a fondo. Perché? Non si sa! Nessuno lo spiega.

Ma sono soprattutto due le anomalie che colpiscono immediatamente. La prima: quei buchi presenti sul braccio e sul polso sinistro se li è davvero procurati Attilio? Come è possibile se il giovane è un mancino puro e con la mano destra non riesce a fare praticamente nulla? È stato lui ad usare quelle siringhe? Nessuno svela l’arcano. Intanto le analisi accertano che una micidiale overdose di eroina e di farmaci ha ucciso il giovane medico. Eroina? Attilio faceva uso di questa sostanza? La cosa desta subito delle forti perplessità: secondo i suoi docenti, il suo primario, i suoi colleghi, gli infermieri dell’ospedale di Viterbo, i suoi amici e i suoi familiari, Attilio non era un tossicodipendente né occasionale né frequente, e poi come avrebbe potuto operare se fosse stato un drogato? Dalle indagini portate avanti dalla magistratura e dalla Squadra mobile di Viterbo non emergono particolari difformi alle testimonianze raccolte, dunque Attilio non era un tossicodipendente. Nero su bianco. Ufficiale. E allora perché quei buchi al braccio e al polso? Perché quelle siringhe? Perché su quelle siringhe non sono mai state prese le impronte digitali, malgrado l’insistenza della famiglia Manca? Silenzio assoluto.

La seconda anomalia – assieme ai lividi trovati sul corpo – riguarda il volto della vittima, soprattutto il naso: ufficialmente, quando viene ritrovato il cadavere, si parla di setto nasale deviato, ma intanto ai genitori che arrivano a Viterbo nelle ore successive viene sconsigliato di vedere il figlio per quel volto tumefatto e irriconoscibile che avrebbe potuto arrecargli un trauma. Ma scusate: si tratta di setto nasale deviato o di volto tumefatto e irriconoscibile? Intanto ai genitori non viene consentito (ovviamente con sistemi “bonari”) di riconoscere il cadavere del figlio: Gino Manca e Angela Gentile sostengono che si è trattato di un pretesto tendente a nascondere loro dei particolari importanti.

Attilio Manca

Ma continuiamo a stare ai fatti.

Sia nell’ipotesi di setto nasale deviato, sia in quella di volto “tumefatto e irriconoscibile”, oltre alle ecchimosi presenti sul corpo e al sangue che scorre a fiotti dal naso, dalle labbra e dalla bocca, ci sono i segni di una fine violenta, di una fine non compatibile con una morte dovuta ad un cocktail di eroina e di farmaci. Ma gli inquirenti dicono che la deviazione del setto nasale o la tumefazione del volto sono stati causati dall’urto contro il telecomando del televisore. Cioè: Attilio, crollando sul letto sotto l’effetto della droga, sarebbe andato a sbattere contro il telecomando presente su una superficie morbida come il materasso e il piumone, si è fracassato il naso e la faccia. Ma il telecomando come finisce sotto il braccio?

Ma come può un telecomando di plastica deviare un setto nasale o rendere irriconoscibile il volto di una persona?

Dunque il dottor Manca – per gli inquirenti di Viterbo – ha trascorso un giorno intero, fino all’ora del decesso – avvenuto, secondo il medico legale, poco prima della mezzanotte –, da solo, senza fare e ricevere telefonate, guardando la tivù senza audio, drogandosi, con il riscaldamento al massimo e con un telecomando che a un certo punto gli fracassa il naso.

Il danneggiamento di quel volto, in verità, appare più compatibile con una violenta aggressione e con la successiva simulazione del suicidio che con la ricostruzione fatta dagli organi inquirenti. Per il semplice motivo che quando ci si trova al cospetto di un cadavere, a volte ci sono dei particolari che “parlano”. E in questo caso molte cose “parlano”.

Ma sono particolari che gli inquirenti non considerano. Eppure sono particolari che vengono segnalati subito dai familiari, particolari che si possono approfondire e dai quali si può partire per svolgere un’inchiesta seria. Invece niente.

Frattanto a Barcellona, a pochissime ore dalla morte di Attilio, succedono cose strane.

Barcellona è un ambiente particolare, una città di mafia, di massoneria e di servizi segreti deviati dove in molti casi i confini dell’apparenza si confondono con quelli della realtà.

E così, subito dopo la morte dell’urologo, comincia a girare un articolo apparso su un quotidiano di Viterbo dove c’è scritto che Manca è morto per un suicidio causato da un’overdose di eroina. Evidentemente il solo suicidio non basta. È necessario un altro elemento, la droga, affinché questa morte si carichi ulteriormente di messaggi. Suicidio e droga. Anche se tutti conoscono Attilio come un bravissimo ragazzo di buona famiglia, pieno di vita, di entusiasmo, e lontano dalla droga, il tam tam passa di bocca in bocca, legittimato da un giornale che in tutta evidenza ha ricevuto queste imbeccate dagli inquirenti di Viterbo, i quali non sentono il dovere di smentire nei giorni successivi. Tutto viene avvolto dalla menzogna e dalla menzogna viene avvolto questo giovane che amava la vita.

In quel momento soltanto il padre, la madre e il fratello percepiscono che si tratta di una cosa che va al di là della più fervida immaginazione, una cosa pericolosa, ma non trovano le parole per spiegarlo. C’è nel loro stato d’animo un misto di impotenza e di rabbia per una vicenda che improvvisamente cambia la loro vita.

La città si convince che Attilio Manca è un suicida col vizio della tossicodipendenza. Quell’articolo uscito in un piccolo giornale della provincia di Viterbo, in verità sembra più indirizzato agli abitanti di Barcellona che a quelli della città laziale, più che a Viterbo, sembra che voglia gettare a Barcellona il seme del dubbio e della delegittimazione.

Uno dei protagonisti importanti di questa vicenda è Ugo Manca, cugino di Attilio, figlio del fratello del padre. Un personaggio strano, che si muove in ambienti pericolosi. In questa storia Ugo Manca pare occupare una parte centrale, ma la sua figura nel libro non sembra approfondita come a mio avviso meriterebbe, probabilmente per non creare ulteriori lacerazioni all’interno di una famiglia già prostrata per la morte di Attilio e letteralmente spaccata dalla presenza di questo giovane cugino. In un’intervista rilasciata da Gianluca Manca, fratello di Attilio, ad un giornale online, si legge che Ugo Manca è stato condannato in primo grado nel processo “Mare nostrum” contro le cosche messinesi e barcellonesi, e assolto in appello. Quello che si deduce fra le righe è che fra i due rami della famiglia, già da tempo, e ancor prima della morte dell’urologo, non corra buon sangue. Soltanto Attilio – ottimista e ingenuo per natura – continua a tenere i rapporti col cugino, ignorando il consiglio di prenderne le distanze da parte del fratello avvocato.

Ci sono parecchi interrogativi sul comportamento di Ugo Manca in questa vicenda. Perché subito dopo la morte del cugino si precipita a Viterbo, malgrado il dissenso espresso dai genitori della vittima? Perché cerca di muovere i canali della magistratura locale per fare dissequestrare a tutti i costi l’appartamento dove gli inquirenti stanno ancora indagando? Perché quando Attilio è in vita lo cerca ripetutamente? E perché Attilio, negli ultimi tempi, quando parla al telefono con lui e con un altro amico di Barcellona, cambia puntualmente espressione e si rabbuia, secondo quanto affermano i frequentatori più intimi del medico? Nel bagno la polizia scientifica rileva una sua impronta, ma lui sostiene di averla lasciata qualche mese prima, quando, ospite di Attilio, si era fatto operare di varicocele proprio dal cugino. Perché, si chiedono i familiari dell’urologo e l’avvocato Repici, per un banalissimo intervento Ugo si è fatto ottocento chilometri quando avrebbe potuto farsi operare nell’ospedale di Sant’Agata di Militello presso il quale lavora? Eppure quelle mattonelle sono state frequentemente lavate e poi, col vapore acqueo, secondo autorevoli pareri scientifici, le impronte digitali tendono a distruggersi in poco tempo. Dunque, a parere dei Manca, Ugo è stato in quell’appartamento in tempi molto più recenti.

Ma quella di Ugo Manca non è l’unica presenza strana proveniente da Barcellona. Pochi giorni prima della morte di Attilio, almeno un altro personaggio appartenente a determinati ambienti si reca a Viterbo: si chiama Angelo Porcino ed è un soggetto sottoposto a sorveglianza della polizia. Il medico intuisce (o forse sa) che potrebbe trattarsi di un personaggio equivoco e chiede telefonicamente conferme al padre. Il padre, non percependo alcun pericolo, minimizza: “Mi sembra una brava persona”. Porcino si reca a Viterbo pochi giorni prima della morte di Attilio. Vede l’urologo? Perché questi chiede notizie al padre’ Perché sulla presenza nella città laziale di Porcino e di Ugo Manca non si sono svolte adeguate indagini?

Ora immaginate una galleria ferroviaria. Siamo a Termini Imerese nel 1960, nel regno della mafia allora più potente della Sicilia. Sui binari giace il cadavere di un giovane giornalista di 25 anni, Cosimo Cristina. Il suo corpo è pieno di lividi, nelle sue tasche vengono trovati due biglietti in cui il cronista confessa di essersi suicidato andandosi volontariamente a schiantare contro il treno in corsa. In base a questi biglietti sui quali non viene disposta neanche una perizia calligrafica, i magistrati archiviano il caso come suicidio. E si capisce: il ragazzo aveva subito una condanna per diffamazione e aveva perso il lavoro. Quindi è un fallito! E i magistrati lo scrivono. Quindi niente autopsia per chiarire scientificamente i motivi della morte. E niente funerali perché la chiesa a quel tempo è misericordiosa coi mafiosi ma inflessibile con gli antimafiosi. E sì, perché Cosimo Cristina non era un giornalista qualunque. Era un antimafioso. Uno che scriveva articoli su Cosa nostra e sui colletti bianchi della sua città. Articoli terrificanti. Cosimo fu seppellito con l’ignominia del suicidio impressa sulla pelle. Un suicida fallito dissero i magistrati. Un suicida fallito confermò la chiesa. Un suicida fallito dissero in piazza.

Quella di Cosimo Cristina è una storia emblematica, una metafora di tante altre storie accadute nel nostro Paese.

Nel mio libro sui giornalisti uccisi in Sicilia, tutti i casi trattati hanno punti in comune incredibili.

Innanzitutto l’uccisione e la successiva delegittimazione della vittima, scientifica, precisa, puntuale, in cui verità e menzogna vengono sapientemente miscelate per fare apparire vera anche la più assurda bugia.

Ed ecco allora che De Mauro è un ricattatore, Impastato un terrorista suicida, Fava un ricattatore e un fimminaru, Rostagno un drogato, Alfano anche lui un ricattatore e un fimminaru.

 

Perché è necessaria la delegittimazione? Per la semplice ragione che certi segreti – una volta rivelati – rischiano di far saltare quel coacervo di entità che vanno dalla mafia alla massoneria ai servizi segreti deviati. E allora gettare fango sulla vittima, vuol dire indebolire la sua autorevolezza, distruggerla, affinché venga indebolita e distrutta l’autorevolezza del segreto che potrebbe essere reso pubblico.

Ma non basta. È necessaria la pianificazione scientifica del delitto, la programmazione a tavolino, non solo da parte del gruppo di fuoco, ma soprattutto da parte delle menti raffinate che lo organizzano. Negli otto casi di cui mi sono occupato, ho potuto rilevare costantemente un fatto: per uccidere un personaggio eccellente è necessario tenere sotto controllo le varie entità preposte ad accertare la verità: le indagini, gli articoli, le perquisizioni, le autopsie, e tanto altro. Ovviamente non si vuol dire che tutte le persone adibite a questo genere di compiti siano o siano state colluse. Si vuole dire che alla base di un delitto eccellente deve esistere una centrale del depistaggio perfettamente funzionante. Perché? E’ necessario che, nel caso in cui vengano scoperti i killer, non si arrivi ai mandanti. Ed ecco allora che le prove devono essere inquinate dall’inizio, cancellate, distrutte, compromesse per eventuali indagini riaperte anche a distanza di anni. Senza questa organizzazione perfetta, i mandanti delle stragi e di molti omicidi eccellenti sarebbero stati consegnati alla giustizia da un pezzo.

 

Che c’entra il caso di un urologo con un delitto di mafia? Intanto partiamo dal fatto che si tratta di un suicidio anomalo, onestamente più un omicidio che un suicidio, dal fatto che qualcuno ha cercato di depistare delegittimando la vittima, dal fatto che le indagini appaiono lacunose in tante parti, malgrado gli input investigativi della famiglia Manca e dell’avvocato Repici, dal fatto che Attilio non era di un posto qualunque, ma di Barcellona Pozzo di Gotto, un luogo dove esiste ed opera una delle mafie più efferate del mondo, perfettamente intrecciata con la massoneria coperta e con i servizi segreti deviati, dove nel ’92 fu costruito il telecomando per la strage di Capaci, e dove due boss calibro di Nitto Santapaola e di Bernardo Provenzano hanno trovato ospitalità durante la loro latitanza. E partiamo dal fatto che nel 2005 il pentito di mafia Francesco Pastoia, guardaspalle proprio di Bernardo Provenzano, dichiara ai magistrati che nell’ottobre del 2003 il boss di Corleone (sotto il falso nome di signor Troia) si sottopose a un delicato intervento di tumore alla prostata in una clinica di Marsiglia, assistito da un medico italiano sia durante l’operazione che nel decorso post operatorio. Ebbene: proprio in quei giorni Attilio si trova a Marsiglia, guarda caso ad assistere a un intervento, ma per telefono ai genitori non aggiunge altro. Una coincidenza? Una coincidenza che appena tre giorni dopo queste rivelazioni, il collaboratore di giustizia Francesco Pastoia si suicidi misteriosamente nel carcere di Modena? Una coincidenza il fatto che altri pentiti (fra cui Francesco Campanella, ex presidente del Consiglio comunale di Villabate, colui che falsificò la carta d’identità di Provenzano in occasione di quell’intervento alla prostata) confermano la versione di Pastoia? L’identità di questo medico rimane ancora ignota. E allora è possibile che Attilio Manca – su intercessione della mafia barcellonese – abbia operato Provenzano senza conoscerne l’identità. È possibile che successivamente abbia intuito o scoperto le vere generalità del “capo dei capi” di Cosa nostra, lo abbia confidato alla persona sbagliata, e per questo sia stato eliminato. Perché – si chiede la famiglia Manca – la magistratura di Viterbo non indaga seriamente a trecentosessanta gradi e continua ostinatamente a sostenere la tesi del suicidio?