C’è una città sommersa che non riesce ad emergere perché vive sottoterra. A contatto col fango, col freddo, con l’umidità, con l’acqua, con la neve, con l’asma bronchiale, con la febbre, con le discariche a cielo aperto, con i topi, con la polvere, con l’afa. C’è una città sommersa, con i tetti di lamiera, le porte di cartone, le pareti di plexiglas. Che rantola di notte e si disperde di giorno. Che muore di freddo e si scioglie di caldo. Che c’è, ma non c’è. Che sta nascendo laddove cinquant’anni fa sventrarono il vecchio San Berillo. Mezzo secolo in cui il Comune di Catania ha promesso infinite volte di intervenire, magari per realizzare piazze, spazi verdi, bambinopoli, ma dove non ha mai fatto nulla, lasciando le aree di corso Martiri della libertà al degrado, all’abbandono, ai traffici di ogni tipo. E’ la città dei baraccati. Un girone dell’inferno dantesco scavato in profondità, quattro o cinque metri sotto il livello stradale da cui affiorano le rocce laviche dell’eruzione del Milleseicentosessantanove, micidiali dirupi su cui sono depositati cumuli di spazzatura che nessuno si prende la briga di ripulire, uno spazio grande quanto un campo di calcio e recintato da un muro che separa la città sommersa dalla città reale, rendendo invisibile la prima e acquietando la coscienza della seconda. Soprattutto quando si muore. Come è successo qualche anno fa ad un cittadino polacco, Yosez Miroslaw, deceduto a causa del freddo. Nell’indifferenza generale. Nella città sommersa non ti danno molte notizie di Yosez, dicono che era sofferente e che le rigide condizioni atmosferiche lo hanno stroncato. Era arrivato a Catania come tutti gli immigrati dell’Est europeo, con la speranza di dare un futuro migliore ai suoi figli rimasti in Patria. Non ce l’ha fatta. Lo hanno trovato rannicchiato per terra nel suo rifugio di cartone. Dicono che l’ultimo pensiero sia stato per i figli.
La città sommersa si allarga giorno per giorno perché giorno per giorno un esercito di disperati non sa dove andare a dormire, soprattutto da quando il Comune, secondo quanto denuncia padre Taormina del Centro “Astalli”, non ha rinnovato la convenzione con i Centri di accoglienza che in passato offrivano un tetto ai diseredati. Una baracca qui e una tenda lì, ed ecco che una cinquantina di cittadini provenienti dall’Est (dalla Polonia, dalla Bulgaria, dalla Romania) attende che si faccia giorno per andare a guadagnare qualche spicciolo. Mario stamattina si è svegliato presto, come sempre, per andare a lavorare. Lo seguiamo in questo “cammino della speranza” che lo porta in giro per la città. La sua baracca è situata laggiù, l’ha costruita vicino al muro per trovare riparo, percorre il lungo viottolo e raggiunge la fenditura, unico passaggio attraverso il quale si entra nell’altra città, a un passo dal frenetico e moderno corso Sicilia con le sue banche e i suoi affari. Altri, invece di percorrere il viottolo, preferiscono aggrapparsi alla scala di legno poggiata al dirupo: è molto rischioso ma è pur sempre una valida scorciatoia. Ecco Mario che si reca al Centro “Astalli” di via Malta, dove fa una doccia, si sbarba, indossa un completo di jeans, e va a lavorare. Si trova a Catania da qualche anno, la sua famiglia (la moglie e due figli) è rimasta in Polonia, in una situazione economica disperata che risente pesantemente dei lunghi anni del regime comunista. “Non è una bella vita quella che facciamo”, dice in un italiano non proprio perfetto. “Fra noi c’è gente di cultura, che possiede un titolo di studi, io sono diplomato in fisioterapia, ma gli italiani non vogliono aiutarti. C’è l’intera città piena di case abbandonate, perché ci lasciano fuori come i cani?”. Mario veste in modo dignitoso, pulito (come molti immigrati dell’Est europeo), ha un volto comune e se lo vedi per strada lo confondi con un cittadino catanese. Racconta la sua storia ma preferisce non fornire le sue generalità: “Non si può lasciare la gente fuori per un inverno intero, non si può permettere che muoia di freddo e di fame”. Fa dei lavori saltuari, il muratore, l’imbianchino, il facchino, il raccoglitore di arance, periodicamente riesce a mandare dei soldi a casa. In questo periodo lavora in campagna, guadagna 20 euro al giorno. “Vivere in quella fossa, dentro le baracche, non è normale”. “I miei figli vivono in Polonia con la pensione di mia madre”. “Qui in Italia quando si parla di polacchi si pensa: tutti ubriachi. Non è vero. Solo qualcuno beve. Quando c’è fame il cervello impazzisce. Ma mi chiedo: italiani non bere?”. Verso le 16,30 Mario torna nella sua baracca e alle 17 si incammina per andare in piazza Bovio dove le suore di Madre Teresa di Calcutta offrono un pasto caldo a chi ne ha bisogno: un primo, un secondo, un contorno, un panino e la frutta. Oggi offrono conchiglie con brodo di verdure, pesce impanato, insalata, e una mela. Mario prende posto nel refettorio strapieno di gente, in mezzo a un’umanità dolente che proviene dai luoghi più disparati e disperati del mondo, gente di colore e gente dell’Est europeo, giovani e donne, ma anche barboni catanesi: “Fortunatamente ci sono queste suore che ci aiutano: tutti vogliono vivere”. “Io voglio vivere perché voglio dare un futuro ai miei figli. Qualche volta, quando ho soldi, li chiamo. Li guardo sempre in fotografia, io pure piangere”. Mario finisce la cena, si alza dalla tavola, saluta la suora e si ferma all’ingresso per scegliere qualche indumento depositato nei pacchi della carità. E’ l’imbrunire. Si incammina verso la città sommersa, illuminata dalle luci sfavillanti del luna park. Laggiù qualcuno ha acceso il fuoco. Lui ripercorre il viottolo scosceso e rientra in baracca.
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