Nella città dove sarà realizzato il ponte più grande d’Europa ci sono migliaia di persone che vivono nelle baracche. Sono i discendenti dei terremotati del 1908, un sisma che distrusse interamente la città e causò novantamila morti. Vivono sotto un tetto di lamiera o di plastica, le pareti in carton gesso, l’umidità che provoca mille malattie, la spazzatura a due passi, l’acqua piovana che penetra dai buchi, i secchi sistemati per tutta la casa, i topi grossi come gatti, le zecche, gli escrementi dei cani e dei gatti sparsi sulla stradina in terra battuta, il puzzo nauseabondo che si sente anche da dentro. Siamo a Tirone, uno dei tanti rioni che ospitano queste strutture costruite in parte su un costone roccioso, in parte sui ruderi del terremoto, su antichi muri che si sbriciolano giorno dopo giorno. A due passi dal municipio, dalla Provincia, dal duomo e dal Palazzo di giustizia. Per arrivare fin quassù è necessario percorrere decine di scalini sconnessi e farsi largo fra i rovi che costeggiano la stradina. Bussiamo in una di queste porte. Ci apre una signora di quarant’anni, Anna Maria, quinta elementare, un marito disoccupato, un figlio disabile di otto anni, Ivan. Anna Maria è al quinto mese di gravidanza e sta scrivendo una lettera all’arcivescovo di Messina, Giovanni Marra, per chiedergli aiuto: “Carissimo arcivescovo, il 10 di agosto dell’anno scorso è crollata una baracca. Io ero uno dei primi famiglie che dovevano assegnarmi una vera casa, da allora sono passate 15 mese mi prendono in giro al comune all’ufficio casa, non so a quale santo rivolgermi. Mi hanno detto che anno sistemato quelli pericolanti. Anche la mia baracca è pericolante. Sopra la mia baracca ce un muro alto più o meno di 30 metri tutto spaccato. Che cosa aspettano i signori del comune, soprattutto il Sindaco. Io non so cosa fare: il piccolo Ivan mi dice mamma adesso arriva Natale le mando la lettera a Gesù bambino, non per un giocattolo, ma per una casa”. Anna Maria posa la penna. “Ho scritto all’arcivescovo perché mi sento impotente. Ivan è affetto dal morbo di Parkinson, frequenta la scuola elementare, fa fatica a salire e scendere ogni giorno tutti questi gradini. La nostra vita si svolge tra un cucinino, un bagnetto e una stanza matrimoniale. Nel letto grande dormiamo in tre: io, mio marito e il bambino. Con quest’altro figlio in arrivo come devo fare?”. Nel frattempo arriva Ivan, accompagnato dal padre Raffaele di 33 anni. E’ un bimbo sveglio, un po’ timido, agli arti inferiori indossa una protezione che lo aiuta nei movimenti. “A scuola è bravino, vediamo di fargli prendere un titolo, poi pensa Dio”. Adesso dalla stradina passa Antonella, 26 anni, una “fuitina” fatta a quindici, accompagna con la mano la figlioletta. Quando la bambina ci vede chiede contenta alla mamma: “Sono i signori che ci devono dare la casa?”. “Per un bambino che vive in queste baracche, la casa è il sogno della vita”, spiega Antonella. “Ho altri due figli. In cinque dormiamo nel letto matrimoniale. A causa dell’umidità la bambina soffre di asma, io sono stata colpita da una paresi. Qui in inverno si crepa dal freddo, in estate dal caldo. Non sono soltanto le condizioni climatiche a farci paura. L’incubo di chi vive a Tirone sono le zecche. Ce ne sono centinaia. Un morso ed è la fine ”. In un’altra struttura di legno vive Antonino, ha 46 anni e fa il muratore: “Io in questa baracca ci sono nato. Finalmente mi hanno dato la casa popolare. Ma ho dovuto attendere quasi cinquant’anni. Una vita durissima: questa è stata la dimora di mio padre e di mio nonno, che mi raccontava il terremoto di un secolo fa. Parlando sinceramente mi dispiace lasciarla”.
Nella città dove sarà realizzato il ponte più grande d’Europa, secondo i dati forniti dall’ufficio stampa dell’Istituto case popolari, circa 9mila esseri umani vivono in 3500 baracche e casette ultrapopolari (ossia “baracche in muratura con uno o due vani) suddivise in circa 68 baraccopoli. Un girone dantesco abitato dall’umanità dolente del sottoproletariato urbano (anziani con pensioni bassissime, ex detenuti, tossicodipendenti, disoccupati, prostitute, allevatori di cani da combattimento e di cavalli per corse clandestine), ma anche da famiglie con redditi piuttosto alti che, pur potendosi permettere un alloggio in affitto, preferiscono vivere in baracca perché “la baracca fa punteggio per avere la casa popolare”. Ottenuta la quale vendono la misera abitazione a nuovi inquilini che fanno lo stesso gioco. Da oltre mezzo secolo. A Messina migliaia di persone hanno vissuto (e vivono) in queste fatiscenti strutture con il miraggio della casa popolare. Contraddizioni di una città che l’immaginario collettivo vede già proiettata verso l’Europa, ma che non riesce a liberarsi dalla “sindrome della baracca”.
Il fenomeno ha inizio proprio col terremoto del 1908, quando nella città distrutta giungono prefabbricati da tutto il mondo. Gradualmente Messina viene ricostruita, le baracche di legno demolite. Eppure ai margini della città un esercito di diseredati senza casa comincia a costruirsi un tetto con del materiale raccogliticcio, cartone, compensato, qualche tavola. Durante il fascismo vengono realizzate delle casette ultrapopolari che ospitano migliaia di persone. La ferita viene riaperta dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Una ferita mai rimarginata che ha definitivamente cambiato il modo di vivere di molti messinesi. Dopo la guerra la città è costretta a ricominciare daccapo: altre bidonville vengono approntate su terreni demaniali e perfino negli alvei dei 52 torrenti che attraversano la città. Zone dai nomi strani come Camaro, Bisconte, Tirone, Villa Lina, Giostra, Ritiro, Villaggio Matteotti, Fondo Basile, Fondo De Pasquale, Villaggio Aldisio, Fucile, vengono occupate da queste misere favelas. Nel 1961 in 5900 baracche abitano 30mila messinesi. Dieci anni dopo, le baracche sono 3500 e i residenti 12 mila. Un primato che allora la città siciliana divide solo con Roma. Col passare degli anni diminuisce il numero dei baraccati ma prolifera il mercato della baracca. E con esso il mercato dei voti: alla vigilia delle elezioni la casa popolare diventa il cavallo di battaglia di molti politici che vengono eletti in parlamento, alla Regione, al Comune o alla Provincia. Nel ’90 l’allora presidente della Regione siciliana, Rino Nicolosi, in visita nella città dello Stretto, prende l’impegno di risolvere il problema. Poco dopo l’Assemblea regionale approva una legge che prevede un finanziamento di 500 miliardi di vecchie lire per il risanamento. In quattro anni con quella cifra si devono demolire le baracche e costruire le case popolari, le fognature, la rete idrica ed elettrica. Il Comune pianifica, l’Istituto case popolari abbatte le baraccopoli e realizza gli alloggi. La norma prevede l’assegnazione degli appartamenti ai nuclei familiari residenti nelle baracche almeno tre anni prima del 31 dicembre 1989. Chi si è insediato dopo non ha diritto alla casa. Accade esattamente il contrario. A quel punto la Regione proroga la data allungando i tempi fino al 31 dicembre 1998. “A Tirone ci sono famiglie che vivono nella baracca da due anni. A loro la casa popolare l’hanno data. A noi che risiediamo qui da una vita continuano a negarla”, dicono all’unisono Antonella e Anna Maria.
Camaro è un altro rione ad alta concentrazione di favelas. Sotto il ponte della ferrovia si trovano decine di strutture costruite con del materiale povero che tremano al passare del treno. “Il rumore è terribile”, dicono gli abitanti. “A causa delle vibrazioni si staccano mattoni o pezzi di intonaco che mettono a rischio la nostra incolumità. A volte dai convogli buttano di tutto, estintori, posaceneri, perfino le tazze del gabinetto”.
La scorsa estate la Regione siciliana ha varato una nuova legge che dovrebbe dare nuovi impulsi al risanamento. In questi ultimi anni l’Istituito case popolari ha realizzato dei nuovi alloggi ed ha demolito diverse baracche. Eppure il problema è rimasto. “Sapete qual è l’unico modo per risolvere il fenomeno?”, dice un anziano signore. “Per eliminare le baracche, dovrebbero eliminare le case popolari”.
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