C’è un mix inquietante di mafia e massoneria dietro la morte di Attilio Manca, il giovane medico di Barcellona Pozzo di Gotto ritenuto dai familiari (e non solo) il chirurgo che nel 2003, in una clinica di Marsiglia, ha operato segretamente di cancro alla prostata il boss Bernardo Provenzano.
È quello che si ricava dalla lettura de “Le vene violate”, il libro di Luciano Armeli Iapichino (prefazione di Nichi Vendola e di Sonia Alfano, pagg. 251, Armenio editore) che racconta questa incredibile vicenda attraverso un “dialogo con l’urologo siciliano ucciso non solo dalla mafia”.
Un “dialogo” immaginario e appassionato che l’autore trae dagli atti giudiziari, dalle poesie di Attilio, dalle interviste con i genitori, col fratello, con la prima fidanzata, con il professore di liceo, con alcuni amici. “Anch’io ho ascoltato questa storia in silenzio”, scrive Luciano Armeli, “qualche anno fa, insieme con i miei alunni. In una calda mattina di fine maggio e una luce intensa di primavera, con i ragazzi già in festa per l’estate alle porte. Quel giorno ha cambiato la mia vita”.
Dal volume di Armeli esce fuori il ritratto di un liceale brillante che traduce senza vocabolario i testi greci e latini, di un universitario che si rivela di una spanna superiore agli stessi docenti, di un valentissimo medico considerato “l’allievo più brillante” del professor Gerardo Ronzoni, una delle massime autorità nel settore dell’urologia nazionale e internazionale.
Un mix micidiale di mafia e massoneria che finora ha colpito a morte giornalisti, magistrati, uomini politici, poliziotti e carabinieri, ma mai medici, se si eccettua il professor Paolo Giaccone, grande esperto di medicina legale, ucciso nell’82 dalla mafia palermitana per essersi rifiutato di addomesticare una perizia nei confronti di un boss.
Ma quello del trentaquattrenne urologo di Barcellona Pozzo di Gotto, da pochi anni in servizio presso l’ospedale Belcolle di Viterbo, potremmo definirlo un massacro con delle modalità che appaiono incompatibili con un suicidio, movente quest’ultimo che dal 12 febbraio 2004 – giorno in cui è stato scoperto il cadavere – è stato spiegato con incredibile caparbietà dal Pubblico ministero di Viterbo.
All’inizio del Duemila, Attilio Manca è uno dei pochi medici italiani ad intervenire sul cancro alla prostata mediante il sistema poco invasivo della laparoscopia. Secondo i genitori e il fratello, sarebbe stata la sua rara abilità nell’uso degli strumenti operatori a decidere il suo destino, auspice quella mafia Barcellonese che nel panorama nazionale assume una posizione di “centralità” da quando fornisce ai Corleonesi il telecomando per la strage di Capaci, e da quando nasconde in quelle zone latitanti del calibro di Nitto Santapaola e dello stesso Provenzano.
Da quel momento Cosa nostra barcellonese fa il salto di qualità, diventa un tutt’uno con la mafia “istituzionale”, quella che comanda davvero.
È nella fitta rete di complicità mafioso-istituzionali, secondo molti, che potrebbe nascondersi la chiave di lettura per accedere a questo ennesimo mistero dell’Italia repubblicana.
È al 2003 che bisogna tornare per capire questa storia. Ai mesi di luglio e di ottobre, quando un tale si presenta in una clinica di Marsiglia sotto il falso nome di Gaspare Troia per sottoporsi ad un delicato intervento di cancro alla prostata. Quell’uomo è il boss Bernardo Provenzano, ricercato dalla polizia di tutto il mondo per le stragi del ’93 e per i delitti eccellenti che hanno insanguinato la Sicilia. A luglio fa gli accertamenti. Ad ottobre l’intervento.
Secondo il pentito Francesco Pastoia, braccio destro del capomafia di Corleone, ad operare Provenzano è stato un medico siciliano. Sul verbale di interrogatorio c’è scritto proprio così: siciliano, non italiano. Una differenza non di poco conto se si pensa che all’epoca, nell’isola, i medici in grado di asportare un tumore alla prostata mediante laparoscopia sono più unici che rari. Attilio potrebbe essere uno di questi.
Ora, non sappiamo se davvero l’urologo abbia operato Provenzano, se abbia assistito all’intervento o se abbia seguito il decorso post operatorio, magari dalla Sicilia. Sappiamo però che nello stesso periodo ha effettuato un viaggio in costa azzurra “per assistere a un intervento”, come dice alla madre al telefono, senza aggiungere altro. E sappiamo pure che le date coincidono perfettamente. Ma sulla vicenda, dopo quasi dieci anni, c’è ancora buio fitto.
Anche perché Francesco Pastoia, in seguito a queste rivelazioni, viene trovato morto in carcere, suicidatosi misteriosamente anche lui.
Perché i familiari di Attilio, diversi intellettuali, alcune personalità politiche e una consistente fetta di società civile non si accontentano delle verità ufficiali e chiedono con forza che l’indagine non venga chiusa?
Per comprenderlo bisogna immaginare il cadavere riverso sul letto della casa viterbese: il volto tumefatto, il setto nasale deviato, il corpo pieno di sangue e di lividi, le caviglie e i polsi segnati da una specie di morsa che avrebbe fatto pressione per ore (una corda? dei lacci?), come se Attilio, prima di morire, fosse stato legato.
Adesso focalizziamo l’immagine dell’avambraccio sinistro. Due buchi. Nessun altro buco nel braccio destro, nel braccio sinistro e nel resto del corpo, segno che la vittima non è tossicodipendente. In cucina due siringhe con il tappo opportunamente riposto nell’ago. Poi, un pezzo di parquet divelto.
Risultato dell’autopsia: morte per overdose di eroina mista ad alcol e tranquillanti.
E il volto tumefatto? E il setto nasale deviato? E il corpo pieno di lividi e di sangue? E le caviglie e i polsi segnati? E la larga chiazza di sangue sul pavimento? E il parquet divelto?
Risposta del Pm di Viterbo, Renzo Petroselli, titolare dell’indagine: colpa del telecomando, sul quale Attilio, dopo essersi iniettato le dosi letali, è caduto violentemente, malgrado la morbidezza del piumone e del materasso.
Sì, certo, il telecomando…
E i due buchi sull’avambraccio sinistro? Risposta del Pm: le iniezioni di eroina fatte da Attilio.
Sì, certo, anche le iniezioni di eroina…
E dopo le iniezioni, sotto l’effetto dell’overdose, l’urologo avrebbe avuto la forza di riporre il cappuccio sugli aghi, buttare una siringa nella spazzatura, fare alcuni metri e buttarsi sul letto…
Anche questo, certo…
Peccato che Attilio Manca sia un mancino puro e per scrivere, per mangiare, per fare le operazioni e per fare qualsiasi altra cosa usi la mano sinistra. Come è possibile che si sia iniettata l’eroina proprio nel braccio sinistro?
E poi, dove sono le prove che quella miscela se la sia iniettata lui? Non ci sono. Ma si insiste sulla tesi del medico drogato che si suicida. E questa tesi viene riferita ai giornali di Viterbo, che guarda caso circolano a Barcellona durante i funerali.
Dal libro di Armeli si ricava un altro particolare importante: i colleghi, gli infermieri e gli stretti collaboratori dell’urologo affermano all’unisono: non risulta che Attilio fosse un tossicodipendente, né frequente né occasionale. Tutto messo a verbale. Nero su bianco.
Per otto anni il Pm Renzo Petroselli parla di suicidio e propone per ben tre volte l’archiviazione del caso, ma il Gip per altrettante volte la respinge. L’ultima volta si prende un anno e mezzo per decidere.
Un anno e mezzo per un suicidio? Già questo porta a ritenere che al Palazzo di giustizia di Viterbo potrebbe esserci qualcosa che non quadra, qualcosa in più della semplice “dialettica” fra magistrati.
Finalmente nello scorso dicembre il Gip Fanti decide: non è stato suicidio, ma neanche omicidio, tantomeno di mafia. È stato il micidiale miscuglio di eroina, alcol e tranquillanti ad uccidere Attilio Manca. Ma questo già si sapeva. Si indaghi su chi avrebbe fornito la droga.
La droga, certo, ancora una volta… Anche se Attilio non era tossicodipendente, anche se quella dose mortale non è accertato che se la sia iniettata lui, anche se non si sa chi ha usato quelle due siringhe (e ora vedremo perché), anche se quella camera da letto, dopo il ritrovamento del cadavere, sembra più il luogo di una mattanza che una stanza per imbottirsi di eroina.
Il caso torna nelle mani del Pubblico ministero Petroselli con i tanti perché che nessuno ritiene di chiarire.
Su sei indagati, cinque sono di Barcellona. Un paio di questi sono ritenuti organici a Cosa nostra. Sarebbero stati loro, assieme a una donna di Roma, a fornire la dose letale.
Dunque, secondo i magistrati, ci sono dei mafiosi, ma non c’è la mafia. Per fare cosa? Il lavoro di un semplice pusher. E per questo partono da Barcellona.
Ma c’è un altro “perché” al quale i magistrati laziali non hanno ritenuto di rispondere: le impronte digitali sulle siringhe. Perché non sono state riprese, malgrado le continue richieste di Fabio Repici, avvocato dei Manca? I quali vogliono sapere se delle impronte ci sono e a chi eventualmente appartengono. Ma da otto anni quelle siringhe restano ermeticamente chiuse in una busta di cellophane.
A proposito di impronte. Nella casa del giovane chirurgo, dopo il ritrovamento del cadavere, ne è stata trovata una. Appartiene a uno dei sei indagati: Ugo Manca, il cugino della vittima. Che non è un personaggio qualunque. È stato imputato e condannato in primo grado nel processo “Mare nostrum” alla mafia barcellonese e messinese con l’accusa di essere un trafficante di droga. Assolto in secondo grado, viene tuttora ritenuto un esponente importante della cosca peloritana.
Lui sostiene che l’impronta è rimasta nel bagno per via della sua permanenza a Viterbo, ospite di Attilio, a causa di un intervento di varicocele al quale sarebbe stato sottoposto dal cugino due mesi prima della morte dell’urologo. Ma secondo il parere di autorevoli esperti, le impronte impresse nei bagni vengono distrutte dal vapore acqueo nel giro di poche ore. Quindi, secondo i familiari di Attilio, è possibile che Ugo Manca sia andato in quella casa nelle ore immediatamente precedenti la morte del medico. Perché?
Ma c’è un altro particolare che la Procura laziale non riesce a chiarire: perché subito dopo il ritrovamento del cadavere, Ugo Manca parte in tutta fretta da Barcellona, va dai magistrati di Viterbo per chiedere, a nome dei genitori di Attilio (che smentiscono categoricamente), che venga dissequestrato l’appartamento del cugino per prendere gli indumenti? Perché questa “urgenza” di entrare nell’appartamento?
Anche se gli inquirenti non lo dicono, appare evidente che questo caso ruoti attorno ad Ugo Manca, questo rampollo della borghesia barcellonese, la cui famiglia gode di ottime entrature all’interno dell’alta magistratura messinese, distretto giudiziario del quale fa parte Barcellona Pozzo di Gotto.
Ma c’è un altro personaggio inquietante attualmente sotto inchiesta.
Si chiama Angelo Porcino, pochi giorni prima della morte di Attilio si è recato a Viterbo per non meglio precisati motivi. Secondo il pentito Carmelo Bisognano, Porcino è un boss di primo piano della cosca barcellonese. Recentemente è stato arrestato nell’ambito di due distinte operazioni di polizia (“Gotha” e “Pozzo2”) ed è stato condannato per tentata estorsione. Perché è andato nella città laziale poco tempo prima della morte dell’urologo? Secondo il Pm per fornirgli la droga.
La madre di Attilio dichiara che alcune telefonate importanti – le ultime, quelle che avrebbero potuto fornire una importante chiave di lettura sulla morte del figlio – sarebbero misteriosamente scomparse dai tabulati.
In una di queste, nella stessa giornata della morte, il giovane medico chiede al padre di andare nella casa al mare, nella frazione di Tonnarella, per prendere la moto e portarla dal meccanico, dato che gli deve servire per l’estate. “La moto per l’estate? A febbraio? Ma quando mai Attilio ha fatto simili richieste?”. Il meccanico al quale il padre porta la moto, la trova in perfette condizioni.
E allora? Secondo i familiari sarebbe stato un disperato tentativo medico di mandare un messaggio in codice: se volete sapere chi mi ucciderà, cercate dalle nostre parti. A Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, dove c’è un circolo paramassonico nel quale convergono boss come Giuseppe Gullotti, alti magistrati come il procuratore generale di Messina Franco Cassata e uomini politici come l’ex ministro Domenico Nania. Dove nel 1993 è stato ammazzato il giornalista Beppe Alfano: indagava sulle grandi latitanze che nel periodo delle grandi stragi si stavano consumando in quel fazzoletto di Sicilia, e sui rapporti fra la mafia barcellonese e la massoneria deviata.
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