Un j’accuse nei confronti del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e di quello Stato che “non protegge i magistrati a rischio”, di quello Stato che “non vuol far luce sulla Trattativa con la mafia”, per la quale Paolo Borsellino, suo fratello, si oppose strenuamente e pagò il prezzo altissimo di essere dilaniato da una bomba assieme ai suoi agenti di scorta. Un jaccuse nei confronti “di certi intellettuali” come il prof. Giovanni Fiandaca (oggi candidato dal Pd alle elezioni europee) e Salvatore Lupo i quali, in un libro recente, giustificano la Trattativa Stato-mafia perché portata avanti “in stato di necessità”.
È amareggiato Salvatore Borsellino, mentre lavora nel suo ufficio di Milano. Il 12 aprile a Roma si è svolta una manifestazione organizzata da Scorta civica, che doveva culminare in un incontro col ministro dell’Interno Angelino Alfano per ribadire la richiesta di un bomb jammer – un dispositivo capace di individuare la presenza di eventuali ordigni per un attentato – da riservare alla sicurezza del sostituto procuratore di Palermo Nino Di Matteo, recentemente minacciato da Totò Riina per le indagini di cui si sta occupando. Motivo dell’amarezza: “Siamo andati a Roma per chiedere al ministro Alfano di mantenere le promesse fatte lo scorso 3 dicembre, quando, alla presenza del Prefetto di Palermo, durante la riunione per l’Ordine e la Sicurezza pubblica, mi aveva assicurato che aveva disposto la fornitura del bomb jammer per la scorta di Di Matteo. A quattro mesi di distanza, del bomb jammer, nessuna notizia. In compenso è stato redatto un rapporto da parte di non meglio precisati tecnici che sconsigliano l’uso di questo dispositivo: dicono che è nocivo alla salute delle persone che stazionano nel raggio di qualche centinaio di metri. Questo rapporto, per noi, non è assolutamente convincente, non spiega scientificamente un sacco di cose. Se teniamo conto che il bomb jammer viene utilizzato da diverse personalità politiche italiane (a cominciare da Berlusconi, n.d.r.), non si comprende perché quando dovrebbe essere usato per un magistrato fortemente a rischio come Di Matteo diventi improvvisamente nocivo. Ecco perché avevamo richiesto un colloquio col ministro, riconfermato dallo stesso Alfano quindici giorni prima tramite il Prefetto. Arrivando a Roma abbiamo avuto la brutta sorpresa di sentirci dire dai funzionari che il dicastero, quel giorno, era deserto: essendo sabato, nessuno ci poteva accogliere, fatto assolutamente anomalo in quanto nelle stesse ore nella Capitale doveva svolgersi una manifestazione molto ‘calda’ dei centri sociali. È incredibile che quel giorno il Viminale fosse sguarnito. Come è incredibile la proposta di farci incontrare, in mancanza del ministro, il vice prefetto addirittura sul marciapiede. Alla fine siamo stati accolti da due funzionari in una stanzetta del ministero. Abbiamo consegnato le nostre richieste e abbiamo ricevuto la risposta che avrebbero riferito al ministro. Tutto qui”.
Alfano come giustifica la sua assenza?
“Con un silenzio assoluto. Alfano quel giorno ha preferito recarsi al congresso del Nuovo centro destra, anteponendo un impegno elettorale a un impegno istituzionale finalizzato alla tutela dei magistrati a rischio”.
Perché il ministro ha preferito sottrarsi al confronto?
“Perché non c’è la volontà di proteggere i magistrati a rischio. La storia non ci insegna niente: oggi Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Carlo Alberto dalla Chiesa e tanti altri sono degli eroi, ma allora venivano isolati ed attaccati dalla politica”.
Qual è il motivo per il quale non c’è la volontà di proteggere questi magistrati?
“A Palermo si sta svolgendo qualcosa di epocale: lo Stato che processa lo Stato, o meglio la parte deviata dello Stato, quella infedele, quella inquinata, quella che ha trattato con la criminalità organizzata e che ha sacrificato la vita di Paolo, ucciso perché si era opposto alla Trattativa. Questo processo dà fastidio a tanti. Sulla Trattativa c’è una congiura del silenzio durata vent’anni, di cui sono responsabili dei personaggi che occupano le nostre istituzioni, che hanno taciuto e che solo adesso cominciano a fare delle deboli ammissioni quando qualche rappresentante dello Stato come Nicola Mancino (ex ministro ed ex vice presidente del Csm, n.d.r.), come Mori e De Donno (ex ufficiali del Ros dei Carabinieri, n.d.r.) sono stati portati alla sbarra. Questo processo cercano di fermarlo in ogni modo. Vogliono trasferirlo in altre sedi. L’ultima richiesta in tal senso è grottesca: dicono che siccome a Palermo c’è una forte mobilitazione dell’opinione pubblica, un eventuale attentato a Di Matteo metterebbe a rischio l’incolumità di queste persone che partecipano al dibattimento. Evidentemente danno per scontato che possa esserci un attentato e che questo possa coinvolgere la Società civile. La verità è che la magistratura di Palermo, che ha la schiena dritta, fa paura a qualcuno”.
Perché attacca il Presidente della Repubblica?
“Intanto perché da parte sua non è arrivata una sola parola di solidarietà nei confronti di questi magistrati, e poi perché ha tentato di delegittimare l’azione degli stessi magistrati attraverso un conflitto di attribuzione sollevato alla Consulta per le oscure intercettazioni tra lo stesso Napolitano e un imputato in questo processo come Nicola Mancino”.
Perché il processo sulla Trattativa è così scomodo? Eppure Napolitano al tempo delle stragi era all’opposizione, quindi teoricamente era contro quel sistema che avrebbe trattato con Cosa nostra. Cosa si muove nel sottosuolo del potere italiano, secondo lei?
“La Seconda Repubblica ha un peccato originale: ha le fondamenta intrise di sangue. Senza le stragi del ’92-‘93 (compiute per alzare il prezzo della Trattativa in corso), questi equilibri non ci sarebbero mai stati. La Seconda Repubblica si basa anche sui ricatti incrociati e legati a quello che è contenuto in una agenda rossa sottratta dalla macchina di Paolo subito dopo l’attentato. Ci sono delle verità inconfessabili alle quali si è riferito peraltro D’Ambrosio (consigliere politico di Napolitano) il quale, prima di morire, parlò di ‘indicibili accordi’. La verità è che non ci fu una sola trattativa”.
In che senso?
“C’è stata la trattativa che ha portato al sacrificio di Paolo Borsellino, finalizzata a salvare la vita di alcuni ex potenti democristiani (dal processo stanno venendo fuori i nomi di Mannino e di Vizzini, salvati in extremis dopo l’uccisione di mio fratello), inseriti in una lista di prossime vittime perché non avevano garantito le impunità che avevano promesso prima del maxiprocesso, quando, per la prima volta, il vertice e l’ala militare di Cosa nostra subirono delle condanne pesantissime anche in Cassazione. Ricordiamo che la mafia, per quello ‘sgarro’, punì personaggi potentissimi come Salvo Lima e Ignazio Salvo, plenipotenziari di Giulio Andreotti in Sicilia”.
E l’altra Trattativa?
“All’inizio degli anni Novanta la mafia, che ha sempre avuto bisogno delle istituzioni, avviò un’altra trattativa con il sistema politico emergente, che allora si indentificava in Forza Italia, Quest’altra trattativa, sotto l’impulso di Marcello Dell’Utri, oggi latitante in Libano, coinvolse i nuovi rappresentanti del potere”.
Come spiega il fatto che un intellettuale come Eugenio Scalfari, fondatore di “Repubblica”, per decenni grande oppositore di Giulio Andreotti, di Bettino Craxi, di Silvio Berlusconi e di Marcello Dell’Utri, oggi giustifichi la Trattativa?
“Probabilmente perché i rapporti fra lui e Napolitano sono solidi. Scalfari non mi sembra più il grande giornalista di un tempo. È come se fosse un’altra persona. In un momento in cui potrebbero venire alla luce delle cose fondamentali scatta la congiura del silenzio. Ma non è solo Scalfari ad assumere una posizione del genere. Professori come Fiandaca e Lupo sostengono che la Trattativa era necessaria. Spero che la sentenza del processo sulla Trattativa non ricalchi quella del processo agli ex ufficiali Mori e De Donno, che ha accertato sì la responsabilità di una parte dello Stato sulla mancata cattura dei grandi latitanti, ma ha sancito che questa responsabilità non costituisce reato. Quindi non costituisce reato il fatto che vengano sacrificate delle vite umane, non solo quella di tanti servitori dello Stato, ma anche di decine di persone comuni dilaniate dalle stragi di via dei Georgofili a Firenze (27 maggio 1993, cinque morti e una quarantina di feriti, n.d.r.) e di via Palestro a Milano (27 luglio 1993, cinque morti, n.d.r.). Quelle stragi sono state compiute per alzare il prezzo. Se tutto questo non costituisce reato viviamo in un Paese dove, per determinare gli equilibri politici, vengono commesse giustificate le stragi, da Portella della Ginestra al Rapido 901, dall’Italicus alla Stazione di Bologna, da piazza Fontana a piazza della Loggia, fino al rapimento e all’uccisione di Aldo Moro”.
Cosa fare, dott. Borsellino?
“Ai giovani stiamo consegnando un Paese in rovina. A loro dico: ragazzi, la nostra è una generazione colpevole, abbiamo commesso tanti errori, non abbiamo niente da insegnarvi, possiamo mettere a vostra disposizione i nostri errori perché non dobbiate ripeterli. Uno di questi è l’indifferenza. Ragazzi, non ripetete il mio errore, quello di essere andato via dalla Sicilia credendo di trovare altrove qualcosa di diverso, magari credendo di sfuggire a questa connivenza scellerata fra la mafia e la politica. Quel cancro che un tempo aveva come epicentro la Sicilia, è andato in metastasi e coinvolge tutti. A questi giovani chiedo quasi in ginocchio di non farlo. Questo Paese è vostro e ve lo dovete riprendere. Lo so, non vi piace, ma fate la scelta di Paolo: lottate per poterlo cambiare”.
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