Perché quello di Attilio Manca è considerato un “delitto di Stato”? E cosa intendiamo per “delitto di Stato”?
Cominciamo col chiarire che con questa definizione intendiamo un omicidio commesso materialmente dalla parte deviata dello Stato (o dalla mafia), nel quale – a vario titolo – sono coinvolti indirettamente altri pezzi dello Stato. Diciamo “a vario titolo” per evitare di cadere nell’errore di equiparare gli assassini a quei rappresentanti istituzionali che, pur avendo il dovere di intervenire, a volte omettono le prove, a volte stanno in silenzio. Nella storia dell’Italia repubblicana, di esempi del genere non ne mancano, dalle stragi agli omicidi eccellenti.
Per “delitto di Stato” intendiamo dunque un omicidio che coinvolge trasversalmente determinati soggetti inseriti nei gangli vitali del sistema, impegnati ora a manomettere e a falsificare le prove; ora a confondere, a depistare e a distrarre l’opinione pubblica; ora a imporre la strategia del silenzio. Sulla morte dell’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto – secondo quel che dice Carmelo D’Amico – si sarebbe creata questa “combinazione fatale”.
La mafia eversiva
Partiamo dunque da chi avrebbe ideato e commesso il delitto, e dai collegamenti che questi hanno con le istituzioni, ponendo come premessa che il nostro ragionamento è il frutto di una interpretazione quanto più oggettiva possibile delle dichiarazioni del pentito D’Amico.
Secondo il collaboratore di giustizia, a volere la morte del medico in servizio da due anni all’ospedale Belcolle di Viterbo, è stato Rosario Pio Cattafi, avvocato, ritenuto, dai magistrati di Palermo, “cerniera” fra Cosa nostra, servizi segreti, massoneria e politica. Le dichiarazioni di D’Amico, tuttavia, cozzano con la recente decisione dei giudici della corte d’Appello di Messina, che lo scorso dicembre hanno ordinato la scarcerazione di Cattafi, in quanto, nella condanna di secondo grado, non solo egli non è più considerato il capo di Cosa nostra a Barcellona, ma avrebbe fatto parte della mafia fino al 2000: quindi sconto della pena inflitta in primo grado, da 12 a 7 anni, con l’esclusione della “pericolosità sociale” e del pericolo di fuga.
Le recenti affermazioni di D’Amico confermano tuttavia una impalcatura investigativa costruita da anni, indagini che reputano Cattafi esponente di primissimo piano del sistema deviato, anche dopo il 2000 (in questo caso almeno fino al 2004, anno della morte di Manca), con un potere addirittura superiore a quello di Provenzano e Santapaola.
Per comprendere il livello del potere di Cattafi, basta dire che, quando all’inizio del Duemila, i magistrati di Messina lo definirono “socialmente pericoloso”, e gli ritirarono la patente obbligandolo a dimorare nella sua città, l’allora sindaco Candeloro Nania (cugino dell’ex vice presidente del Senato, Domenico Nania), pensò di mettergli a disposizione la macchina del comune con tanto di autista. Per non parlare dei terreni agricoli della famiglia Cattafi destinati al Parco commerciale grazie alle delibere del Consiglio comunale di Barcellona.
Un Consiglio imbottito, fino a un paio di anni fa, di soggetti del senatore Nania, considerati dalla Commissione prefettizia, “vicini alla mafia”. Malgrado le varie richieste di scioglimento, nessun Governo di centrodestra e di centrosinistra ha mai provveduto a superare l’emergenza etica.
I “neri” a Messina
In piena “guerra fredda”, Cattafi è stato un esponente di peso dell’estremismo di destra nel messinese. Erano gli anni ’70, bisognava difendere l’Italia dal “pericolo rosso”. Suoi compagni di battaglia, ai tempi dell’Università, erano Pietro Rampulla (diventato successivamente boss di Mistretta e artificiere della strage di Capaci), lo stesso Nania, in quel periodo arrestato per gli scontri con i comunisti; e Beppe Alfano, l’unico fra questi ad indirizzare le sue energie nella lotta alla mafia.
A quei tempi si menavano le mani, e si usava anche il mitra, come quando Cattafi e Rampulla presero a sventagliate la Casa dello studente, tanto per far capire chi comandava nell’Ateneo messinese.
Dopo la laurea, Cattafi lasciò Barcellona per trasferirsi a Milano, dove, secondo i magistrati, fra le altre cose, si dedicò al riciclaggio dei denari sporchi del clan Santapaola, restò coinvolto nello scandalo delle tangenti dell’autoparco milanese e nell’assassinio del giudice di Torino, Bruno Caccia.
Dopo il crollo del Muro di Berlino, un sacco di “patrioti” divennero depositari di verità talmente sconvolgenti che, se rivelate, avrebbero causato un cataclisma nell’intera Nazione. E così utilizzarono il loro potere di ricatto per continuare ad agire.
Saro Cattafi tornò definitivamente a Barcellona poco prima della strage di Capaci. In un primo momento i magistrati lo indicarono come uno dei mandanti esterni dell’eccidio, ma dopo archiviarono la sua posizione, assieme a quella di Silvio Berlusconi e di Marcello Dell’Utri.
L’assassinio di Beppe Alfano
Nella sua città visse il momento più cruento della guerra di mafia per il controllo degli appalti e dell’eroina. Mentre il boss “ufficiale” Giuseppe Gullotti, detto “l’avvocaticchio – di cui Cattafi era stato testimone di nozze – decretava la morte di Alfano, lui non compariva mai. Dal suo “buen retiro” tutto casa e “Corda fratres”, assisteva, magari ignaro, alle grandi latitanze di Stato in quel di Barcellona. Qualche volta incontrava l’ex giudice antimafia Francesco Di Maggio, vice capo del Dipartimento affari penitenziari (Dap), suo vecchio compagno di scuola, che, secondo quanto lui stesso ha dichiarato ai magistrati, gli avrebbe chiesto di contattare Santapaola per fare cessare le stragi.
Eppure di fatti strani, dopo il suo rientro a Barcellona, ne capitarono tanti. Come quando il Raggruppamento operativo speciale dei Carabinieri (Ros) del Generale Mario Mori, ricevette una soffiata sul covo di Santapaola in quel territorio e si scatenò in un rocambolesco inseguimento di una macchina con tanto di conflitto a fuoco. Peccato che su quell’auto non ci fosse Santapaola, il quale, messo sull’avviso, si spostò tranquillamente in un appartamento messo a disposizione, stando ad una interrogazione del senatore del Pd Beppe Lumia, da tale Aurelio Salvo, personaggio sul quale Nello Cassata, figlio del magistrato Antonio Franco Cassata, potrebbe dire qualcosa. Fu Cassata jr a a prorogare a Salvo l’affitto a prezzi stracciati di alcune proprietà di un istituto di beneficenza (l’Ipab, di cui Cattata figlio era presidente) di Terme Vigliatore.
Il giornalista Beppe Alfano scoprì dove “don Nitto” si era nascosto e si recò – secondo le dichiarazioni della figlia Sonia, ex parlamentare europea – in gran segreto dall’ex Pubblico ministero di Barcellona, Olindo Canali, per svelargli tutto. Canali era amico sia del cognato di Gullotti, Salvatore Rugolo, nuovo reggente della Famiglia barcellonese, sia di Cassata padre. Nel corso di quell’incontro, il Pm consigliò al giornalista di scrivere minuziosamente ogni particolare su Santapaola – perfino la storia di un traffico d’armi a Portorosa – in una lettera anonima da intestare ad un fantomatico funzionario della Dia di Catania. Il cronista eseguì le istruzioni e poco tempo dopo (8 gennaio 1994) fu ammazzato su ordine di Gullotti.
Oggi Carmelo D’Amico, sulla morte di Attilio Manca, accusa pesantemente Rosario Cattafi, ma oltre a tirare in ballo un Generale dei Carabinieri, indica un ufficiale dei servizi segreti che avrebbe avuto compito di commettere un assassinio da camuffare come suicidio. Già questo – se le parole del pentito dovessero essere riscontrate – fa capire che lo Stato c’entra, lo “Stato deviato” ovviamente. E l’”altro” Stato?
Dunque, lo Stato
A questo punto è obbligatorio pesare le parole di D’Amico per la dirompenza che contengono. Il Generale – secondo il pentito – avrebbe informato Cattafi delle precarie condizioni della prostata di Provenzano. Dunque fra l’ufficiale dell’Arma, il boss barcellonese e lo stesso Provenzano doveva esistere uno stretto rapporto di amicizia, ma anche di complicità e di interessi. D’Amico puntualizza la vicinanza del Generale al circolo barcellonese “Corda fratres”. Il pentito inserisce questo discorso in un contesto ben preciso, non più limitato a soli tre personaggi (Cattafi, il Generale e Provenzano), ma più ampio.
E qui è il caso di soffermarci anche su Giuseppe Gullotti, compare di anello di Cattafi, candidato da Nania negli anni Ottanta nelle liste del Movimento sociale italiano, e indicato da altri pentiti come vicino ai servizi segreti e alla massoneria. Gullotti, dunque, assieme a Cattafi (almeno fino al 2000), sarebbe l’altra testa di ponte dell’eversione mafiosa a Barcellona. Non foss’altro perché – oltre a fare ammazzare Alfano – “l’avvocaticchio” è considerato una pedina importante per la strage di Capaci. Fu lui a recapitare a Giovanni Brusca il telecomando per l’eccidio. Gullotti in quel momento era ancora iscritto alla “Corda fratres”. Fu espulso – malgrado le informative che da tempo circolavano nelle caserme e nei Palazzi di giustizia – soltanto dopo la notizia del suo coinvolgimento nel delitto Alfano. Cattafi, invece, ha continuato a frequentare il sodalizio per molto altro tempo.
Sorprende non poco il silenzio dell’ex procuratore Cassata e del senatore Nania di fronte alle dichiarazioni di D’Amico che fa il nome ballo un circolo che per loro rappresenta una sorta di seconda casa. Perché il sodalizio non smentisce vicinanze con la mafia e con settori deviati dello Stato? Il problema è che dovrebbe smentire l’appartenenza di due personaggi come Gullotti e Cattafi. E quindi in attesa di tempi migliori, il silenzio è d’oro.
Dunque Cattafi, auspice questo Generale, avrebbe contattato (direttamente o tramite intermediari) Attilio Manca, tornato da poco da Parigi, dove si era specializzato nella chirurgia laparoscopica per il cancro alla prostata. Per quel tipo di operazione, Attilio era perfetto: conosceva la lingua francese (particolare non secondario); era cugino di un elemento inserito perfettamente nel sistema, Ugo Manca; era disponibile quando quest’ultimo gli portava i suoi concittadini a Viterbo. Soprattutto era di Barcellona, città scelta da Provenzano (solo da Provenzano?) per nascondersi, e nella quale l’urologo avrebbe potuto contare per certe strutture sanitarie per la diagnosi e per la cura post operatoria.
In attesa di conoscere i nomi dei due ufficiali citati da D’Amico, e di eventuali chiarimenti da parte della “Corda fratres”, è bene capire chi – delle istituzioni – ha contribuito, direttamente o indirettamente, a fare certi giochi.
Le responsabilità istituzionali
Il procuratore della Repubblica Alberto Pazienti, il Pm e titolare delle indagini Renzo Petroselli, il Gip Salvatore Fanti, il capo della Squadra mobile Salvatore Gava, il medico legale Dalila Ranalletta (che ha eseguito l’autopsia), che hanno omesso (per usare un eufemismo) particolari fondamentali per le indagini, dando spiegazioni tutt’altro che convincenti e senza battere piste alternative all’overdose di eroina.
Le responsabilità indirette
E le responsabilità “indirette”?
Ci chiediamo perché, ad esempio, il Consiglio superiore della magistratura, l’Associazione nazionale magistrati, i ministri della Giustizia e dell’Interno – ognuno per propria competenza – non abbiano mai ritenuto di fare chiarezza sul Tribunale e sulla Squadra mobile di Viterbo, malgrado le interrogazioni del Movimento 5 Stelle, che più volte ha chiesto delle ispezioni.
Ci chiediamo cosa aspettino il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera a prendere una posizione e a ricevere la famiglia Manca (dopo che lo scorso anno, in occasione della Giornata della memoria, il Papa ha citato il nome dell’urologo fra le vittime della mafia) per farle sentire la vicinanza dello Stato di diritto.
Ci chiediamo perché la stampa nazionale – tranne “Il Fatto quotidiano”, Santoro e “Chi l’ha visto”, che tuttavia hanno trattato il caso in modo molto discontinuo – non abbia dato spazio ad una storia paradigmatica come questa. Perché la Rai – di fronte alle notizie sconvolgenti che stanno emergendo – relega il caso Manca al telegiornale regionale e continua ad occuparsi solo di delitti comuni? Perché Mediaset, su questa vicenda, è stata completamente assente, e perché ha promosso sul campo la dottoressa Ranalletta, diventata consulente di certe trasmissioni? La Ranalletta, da una piccola Usl della Tuscia, è assurta ai vertici dell’Asp1 di Roma, mentre il marito Antonio Rizzotto, ex primario di Attilio Manca, è diventato addirittura l’urologo dei parlamentari nazionali. Secondo la famiglia Manca, “fu Antonio Rizzotto a dire che Attilio si era deviato il setto nasale cadendo sul telecomando”. Le foto smentiscono questa spiegazione, in quanto ritraggono il telecomando sotto il braccio della vittima e non sotto la faccia. “Fu Antonio Rizzotto – sempre secondo i Manca – ad entrare continuamente nella sala mortuaria per chiedere notizie dell’autopsia e per sollecitare la moglie a concludere l’esame”.
Il silenzio… all’improvviso
Infine qualcuno dovrebbe spiegare perché – pur essendosi occupato della vicenda Manca – improvvisamente si è fermato.
È il caso della Commissione parlamentare antimafia che da molti mesi tace. Dopo i fuochi iniziali, l’indagine sul caso dell’urologo si è improvvisamente impantanata. È successo dopo che a Palazzo San Macuto sono stati sentiti – peraltro in maniera assolutamente incompleta – i due magistrati di Viterbo, Pazienti e Petroselli, con tantissime domande non poste e un sacco di dubbi mai chiariti. Ci chiediamo perché l’Antimafia non ha mai ascoltato gli altri soggetti che in questa vicenda hanno avuto un ruolo importante.
3^ Puntata. Fine
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