Le dichiarazioni di D’Amico rappresentano il big bang che sconvolge il quadro delle ipotesi. La “bomba” che mette al centro del caso Manca lo Stato. Se è vero che l’avvocato barcellonese Rosario Pio Cattafi – come dice il pentito – ha incaricato un ufficiale dei servizi segreti di assassinare l’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto, Attilio Manca, da due anni in servizio all’ospedale di Viterbo, dobbiamo desumere che mafia e servizi segreti deviati hanno agito alla pari, nel senso che non c’è stato un mandante e un esecutore, ma un’unica entità “orizzontale” che avrebbe agito per lo stesso fine.
Che vuol dire? Vuol dire che la figura dell’avvocato Cattafi riassume le entità che dall’immediato dopoguerra ad oggi hanno sovvertito le regole democratiche: eversione di destra, mafia, politica corrotta, servizi segreti deviati, massoneria. Pochi come lui, nel nostro Paese, riescono a sdoppiarsi e a “camaleontizzarsi” in questo modo. Particolarmente significativo il suo curriculum vitae. ex estremista di destra, coinvolto nell’omicidio del giudice torinese Bruno Caccia; indicato come riciclatore del denaro sporco del clan Santapaola, ritenuto (anche se la sua posizione è stata archiviata) di essere, assieme a Silvio Berlusconi e a Marcello Dell’Utri, uno dei mandanti esterni della strage di Capaci, nonché un pezzo importante della Trattativa Stato-mafia.
Lo Stato come valore aggiunto
Lo Stato, in questa storia, se le dichiarazioni di D’Amico sono attendibili, rappresenta il “valore aggiunto”, il soggetto che – come sempre quando ci sono segreti inconfessabili da seppellire – si è assunto l’onere di mettere in atto le cinque azioni che scattano in casi del genere: la soppressione della persona scomoda, la delegittimazione della stessa (a volte anche dei suoi familiari, specie se parlano troppo), il depistaggio, l’occultamento delle prove, il silenzio istituzionale.
L’avere scoperto la vera identità di un boss come Provenzano durante la latitanza – come lo stesso D’Amico rivela a proposito di Attilio Manca – e la rete di Colletti bianchi che lo ha protetto soprattutto a Barcellona, rappresenta quel “segreto” che lo Stato non può permettersi di tenere in vita.
Questo, in sostanza, si desume dalle parole di D’Amico.
Ma adesso concentriamoci su alcune dinamiche fondamentali di quelle dichiarazioni. Il pentito dice che Provenzano, essendo affetto da problemi alla prostata, aveva bisogno di un bravo urologo in grado di assisterlo non solo per l’operazione, ma per la diagnosi e per le cure post operatorie. A quel punto sarebbe entrato in gioco un misterioso Generale dei Carabinieri “vicino al circolo para massonico di Barcellona Pozzo di Gotto, Corda fratres”, il quale avrebbe informato l’avvocato barcellonese Rosario Pio Cattafi. Tramite intermediari o direttamente, Cattafi contatta il medico barcellonese (il migliore sulla piazza a livello nazionale, primo urologo in Italia ad operare il cancro alla prostata col sistema laparoscopico) per le cure da apprestare al boss dei boss.
Dopodiché Cattafi – sempre secondo D’Amico – chiede il favore di sopprimere Manca ad un ufficiale dei servizi segreti, dato che l’urologo avrebbe visto quello che non doveva vedere, confidato il segreto a chi non doveva confidarlo, e mostrato, forse, quel risentimento che un medico “a disposizione” non dovrebbe mostrare.
Il Generale e la “Corda fratres”
Ma chi è il Generale dei carabinieri che all’interno di Cosa nostra – a parere di D’Amico – viene chiamato “u calabrisi” e “u bruttu”? Il collaboratore di giustizia dice di non saperlo, ma intanto collega l’ufficiale dell’Arma con la “Corda fratres”, un circolo all’interno del quale hanno sempre convissuto altissime autorità come l’ex procuratore generale della Corte d’Appello di Messina, Antonio Franco Cassata, l’ex vice presidente del Senato Domenico Nania, l’ex sindaco Candeloro Nania e l’ex presidente della Provincia Giuseppe Buzzanca. Con chi? Con lo stesso Cattafi (con il quale queste alte autorità risultano in intima amicizia) e con Giuseppe Gullotti, boss ritenuto vicino ai servizi segreti e alla massoneria, incaricato di recapitare “brevi manu” il telecomando della strage di Capaci – costruito a Barcellona – a Giovanni Brusca in quel di San Giuseppe Jato, accusato inoltre dalla Cassazione di essere il mandante del delitto del giornalista Beppe Alfano.
Dunque, nello stesso circolo, ci sono alti rappresentanti delle istituzioni che convivono con esponenti altrettanto alti dell’eversione mafiosa e di destra. Non bisogna dimenticare che negli anni Ottanta, Gullotti, fu candidato da Domenico Nania al Consiglio comunale di Barcellona nelle liste del Movimento sociale italiano (partito antesignano di Alleanza nazionale), scatenando le vibrate proteste di Beppe Alfano che denunciò il fatto al segretario nazionale dell’Msi, Giorgio Almirante. Il leader della destra strinse le spalle e disse: “Non posso farci niente”. Risultato: Gullotti partecipò alle elezioni e Alfano fu espulso dal partito. Non bisogna dimenticare cosa è stata negli ultimi anni Alleanza nazionale a Barcellona: un partito – secondo le relazioni di prefetti ed esponenti delle istituzioni – fortemente intossicato dalle infiltrazioni mafiose, con la figura di Mimmo Nania nel frattempo cresciuta enormemente.
Ora, se D’Amico ha pronunciato questo nome, “Corda fratres”, e se soprattutto, i magistrati lo hanno trascritto, un motivo deve esserci. Evidentemente il nome del sodalizio barcellonese non appare così ininfluente nelle dinamiche del racconto. Sennò perché tirarlo in ballo? E allora bisogna chiedersi: la “Corda fratres” ha un ruolo in questa storia o no? Ed eventualmente quale?
D’Amico non lo ha detto, ma intanto bisogna porsi un altro paio di domande: qual è la potenza della “Corda fratres”? A livello locale – secondo la voce comune – è riuscita a “sistemare” tutti i ragazzi della Barcellona-bene che, dopo il diploma o la laurea, vi si sono iscritti. A livello nazionale, beh… se personaggi del calibro di Cassata e di Nania hanno fatto una carriera così prestigiosa (malgrado le gravissime accuse di vicinanza con la mafia, da cui finora sono sempre usciti indenni), evidentemente certi collegamenti sono talmente potenti da consentir loro protezioni ad altissimi livelli.
E allora, ripetiamo, che ruolo ha avuto (ed ha) la “Corda fratres” nella vicenda Manca? Non lo sappiamo, ma è certo che al suo interno hanno operato per molti anni boss del calibro di Saro Cattafi e di Giuseppe Gullotti. Così come si deduce che esiste un legame fra il sodalizio e il Generale dei Carabinieri tirato in ballo dal pentito. Un legame con chi, a parte Cattafi? Il giudice Cassata – dato che è sempre stato il leader del circolo – conosce l’alto ufficiale? Se sì, perché non aiuta la giustizia ad appurare la verità? La “grande triade” della “Corda fratres” Cattafi-Cassata-Nania ha mai parlato del caso Manca? “Come” ne ha parlato, in quali contesti?
La “quarta persona”
C’è una quarta persona che ha rapporti molto intimi con i tre, e che fa parte del giro della “Corda”. Si chiama Ugo Manca, è il cugino di Attilio ed è stato convolto nella morte dell’urologo – anche se gli inquirenti di Viterbo ne hanno minimizzato le responsabilità – per un’impronta palmare lasciata nell’appartamento del congiunto. Ugo risulta organico alla mafia barcellonese, al processo “Mare nostrum droga” è stato condannato in primo grado a quasi dieci anni di carcere (ma è stato assolto in Appello assieme a tutti gli altri Barcellonesi) perché ritenuto un trafficante di droga. Ugo Manca è il perno di questa storia, non solo per l’impronta lasciata nella casa viterbese di Attilio, ma per tante, per troppe cose. A cominciare dagli strani movimenti fatti dopo la morte di Attilio. Catapultatosi nel Lazio dopo avere appreso del decesso del cugino, ha fatto di tutto per entrare nell’abitazione del medico, malgrado i sigilli apposti dalla magistratura. Né su questo, né su altro, gli inquirenti laziali hanno mai ritenuto di chiedergli conto. Solo qualche striminzito verbale di sommarie informazioni e basta. Eppure dalle parole di Alberto Pazienti, procuratore di Viterbo, risulta che Ugo “era il punto di riferimento dei Barcellonesi che dovevano curarsi all’ospedale di Viterbo”. Di quale mondo, non è difficile immaginarlo. Emerge, tra l’altro, che pochi giorni prima della morte di Attilio, Ugo abbia telefonato al cugino per raccomandargli tale Angelo Porcino, considerato dai Carabinieri “un boss di primo piano della mafia barcellonese”. Non risulta che gli inquirenti di Viterbo abbiano indagato sulla “trasferta” nel Lazio di questo tizio, ma dalle parole del procuratore Pazienti, e dalla “raccomandazione” di Ugo finalizzata a favorire il “boss di prima grandezza”, non si esclude che certe prestazioni professionali di Attilio abbiano potuto rappresentare una sorta di “collaudo”, prima della “madre di tutte le operazioni alla prostata”, quella a Bernardo Provenzano.
Anche perché bisogna tenere conto che dall’inizio del Duemila un’ala dell’ospedale Belcolle di Viterbo è stata riservata ai mafiosi detenuti al 41 bis. Con chi potrebbe essere entrato in contatto in quel periodo Attilio Manca? Ci sono altri medici di quell’ospedale che potrebbero avere avuto un ruolo?
Non sappiamo neanche questo, nessuno lo ha mai appurato. Così come nessuno ha mai chiarito se risponde a verità il fatto che dopo la morte di Attilio, c’è stato un personaggio “molto in alto” il quale – avendo saputo che si era avviata un’indagine sul rapporto fra il decesso dell’urologo e la latitanza di Provenzano – ha chiesto gli atti dell’inchiesta agli investigatori del tempo. Gli atti non arrivavano e allora il personaggio, dopo appena due giorni, ha sollecitato quelle carte, “senza ulteriori indugi”. Le carte gli sono state trasmesse e da quel momento tutto si è fermato.
2^ Puntata. Continua.
un paese orribile, orrendo!