La casa è solare, geometrica ed essenziale, come l’uomo che molti anni fa la progettò, Adolfo Parmaliana, che di quella dimora disegnò gli interni come la prua di una nave.
Metaforicamente è una nave che solca il mare di Terme Vigliatore, questo paese in provincia di Messina sciolto per mafia alcuni anni fa, con il nocchiero che tiene il timone a dritta, incurante dei venti impetuosi provenienti ora da destra ora da sinistra.
Quando progettò quella casa, Adolfo era uno studente modello di Chimica industriale prossimo alla laurea. Frequentava il Pci, la Cgil e le feste dell’Unità e camminava con l’”Unità” e “la Repubblica” sempre in mano. Quando si fidanzò con Cettina (“di due anni più piccola, figlia di un democristiano con tanto di tessera”, come dice lei stessa), la coinvolse in un’attività che l’avrebbe travolta per sempre, la politica. Non la politica salottiera e inciucista di certa sinistra, ma la politica alta, raffinata e intransigente di chi, parlando di “questione morale”, arriva dritto al Bene comune. Che da queste parti vuol dire lotta alla mafia, alla cementificazione selvaggia, alle lobby politico-affaristiche.
Poi la laurea col massimo dei voti e una carriera all’Università di Messina, dove, ancora giovanissimo, diventa docente di Chimica industriale, settore nel quale si fa stimare in tutta Europa per le sue ricerche innovative. Eppure Adolfo, malgrado il successo professionale, non abbandonerà mai il suo paese.
Terme Vigliatore, ma anche Barcellona Pozzo di Gotto (comuni praticamente limitrofi), restano il cruccio della sua vita, specie quando costruisce la nave, e quel mare comincia ad assumere i colori violacei e sinistri dell’affarismo e della collusione.
In questi giorni la figura di Parmaliana è tornata agli onori della cronaca per la condanna definitiva (800 Euro di ammenda: una cifra irrisoria sul piano giudiziario, ma pesante, molto pesante, sul piano morale) inflitta all’ex procuratore generale della Repubblica di Messina, Antonio Franco Cassata, colpevole, secondo i magistrati di primo grado, di appello e di Cassazione, di aver diffamato l’ex docente universitario con un dossier anonimo pieno di falsità, con l’aggravante di averlo stilato dopo la morte del professore.
Indubbiamente Parmaliana non doveva essere proprio simpatico a Cassata. Né da vivo, quando qualche anno prima lo costrinse a difendersi davanti al Consiglio superiore della magistratura da una serie di addebiti che il Csm non ritenne fondati, al punto da promuoverlo come procuratore generale. Né da morto, quando lo scrittore Alfio Caruso, attraverso il libro “Io che da morto vi parlo” (Longanesi), dedicato proprio a Parmaliana, lanciò un durissimo j’accuse contro la classe politica e la magistratura locale.
Adolfo muore il 2 Ottobre 2008, in un viadotto dell’autostrada Messina-Palermo, all’altezza di Patti Marina: la macchina posteggiata ai bordi della carreggiata, lui che scende, scavalca il guard rail e si lascia andare sfracellandosi al suolo dopo un volo di trenta metri. Dopo qualche ora, nello studio della sua casa, trovano una lettera dove il docente confessa i motivi di quel gesto: non ne poteva più di essere “messo alla gogna dalla magistratura di Barcellona e di Messina” di allora.
Poco tempo prima Parmaliana aveva presentato un esposto – uno dei tanti – alla Procura della cittadina tirrenica, accusando i politici di quel territorio di una serie di presunte irregolarità. Invece di indagare sulle notizie contenute nella denuncia, i giudici lo rinviarono a giudizio per diffamazione.
Finora l’interpretazione di quella morte è stata univoca: sentitosi “delegittimato” per l’ennesima volta, il professore decide di farla finita. Quel suicidio, e quella lettera, dovevano contenere una duplice finalità: accendere i riflettori contro il sistema di potere di quel territorio, e metterne a nudo gli affari, la tracotanza, l’impunità. Ipotesi sicuramente vera, ma forse non unica, almeno a sentire la moglie. In questa inchiesta a puntate, cercheremo di capire perché.
Cettina Merlino, 56 anni, farmacista, è la moglie di Adolfo Parmaliana. Da quel 2 Ottobre 2008 sostiene che in questa vicenda ci sono delle incongruenze mai chiarite.
“Mio marito tutte le mattine si alzava prestissimo – dice – . Doccia, barba, profumo… Dopodiché tornava in camera da letto: ‘Che dici… mi metto questi pantaloni, questa cravatta e questa giacca?’. Quel giorno, il copione fu lo stesso: ‘Mi metto il pantalone Burberry o Canali, quello marrone o quello blu?’. Già questo è strano. È una scena troppo quotidiana per fare da preludio a un suicidio. Una persona che ha in mente di andarsi a buttare da un ponte, a tutto pensa tranne che a questo”.
Era d’accordo con la sua attività di denuncia?
“Adolfo non faceva mai una cosa senza consultarmi, ma io lo scoraggiavo sempre. Hai il tuo lavoro, queste cose ti porteranno solo guai’. Avevamo sempre qualche problema per questo. E allora lui: ‘Va bene, dici così… In effetti…’. Dopo cinque minuti cambiava tutto: ‘Perché vuoi che cambi? Mi hai conosciuto così…’. Alla fine vinceva lui”.
Perché suo marito denunciava?
“Era fatto così. Ci credeva. Non lo faceva per la gloria o per avere qualche riconoscimento. Ci credeva. È difficile far capire agli altri l’impegno e la serietà che Adolfo profondeva nelle sue battaglie quotidiane per la legalità. La versione ufficiale del suicidio aumenta questa difficoltà. La gente comune pensa: ma perché una persona che aveva tutto, stava bene economicamente, fa questo? E allora, far capire a tutti che esistono degli individui che credono in certi valori, che in nome di questi valori si possa essere isolati e abbandonati, non è facile”.
Torniamo a quei giorni. Focalizziamo l’attenzione sull’ultimo periodo.
“Negli ultimi tempi aveva paura”.
Da quando?
“”Da agosto”.
Non ha cercato di capire perché?
“L’ho capito molto tempo dopo. In quel momento non ci pensavo. Lui diceva sempre: ‘Non ti preoccupare, a voi non succederà niente”.
In Cettina Parmaliana ci sono due momenti: il primo, in cui nutre dei dubbi sul suicidio del marito, e il secondo in cui dice: ‘Però quella lettera è sua’, come se quella lettera possa eliminare qualsiasi enigma. Allora, per un attimo, facciamo finta che la lettera non esista. Parliamo dei dubbi che ha avuto in questi anni. Perché li ha avuti? Quali sono?
“Adolfo soffriva di vertigini, aveva paura delle altezze. Neanche saliva su una scala, figuriamoci su un viadotto per buttarsi di sotto”.
Dunque le cose sono due: o era totalmente obnubilato da qualcosa, o potrebbe esserci dell’altro.
“Non è obnubilata una persona che fa colazione la mattina, e al figlio che sta per uscire dice: ‘Mi raccomando non correre, guai se non indossi il casco’, cioè questo modo quotidiano di imprimere ai figli il rispetto delle regole. E la sera prima aveva parlato con i suoi studenti, ai quali aveva dato appuntamento per le 14 del 2 Ottobre”.
A che ora è morto, secondo la ricostruzione degli inquirenti?
“Verso le 10 di mattina. Degli automobilisti hanno visto questa macchina ferma sul ponte dell’autostrada Messina-Palermo, all’altezza di Patti, e hanno avvisato la Compagnia dei Carabinieri. Io l’ho saputo alle 14”.
Un arco temporale di quattro ore. Non è eccessivo?
“Non lo so. Mio marito da trent’anni aveva l’abitudine di chiamarmi tutti i giorni. Quel giorno non lo fece. Gli telefonavo, ma il cellulare era spento. E allora cominciai a chiamare la sua segretaria, all’Università. Che disse: ‘Sto tentando di rintracciarlo, ma il telefono risulta spento. Gli studenti sono in aula, cosa devo dire?’. Strano anche questo: lui non avrebbe mai dato un appuntamento ai suoi studenti se avesse pensato di non rispettarlo. Questo mi induce a pensare che il giorno prima non aveva ideato il suicidio. Cercai di rintracciare l’ingegnere Giacinto Garofalo di Brolo, presso il quale quella mattina sarebbe dovuto andare. Adolfo infatti era il direttore dei lavori del depuratore di quel comune: lo aspettavano anche lì. ‘Non si è visto’. Dunque, quella mattina, mio marito non si era presentato neanche sul posto di lavoro. Intorno alle 14 arrivarono i Carabinieri. A quel punto pensai: ‘E’ successo qualcosa”.
Fin dall’inizio, come movente del suicidio, si è pensato al rinvio a giudizio per diffamazione, causato da una denuncia di suo marito contro i Comitati d’affari di Terme Vigliatore.
“E’ un’ipotesi che ci sta tutta, ma credo che ci fosse dell’altro. Le sue preoccupazioni, probabilmente, non erano collegabili con il rinvio a giudizio”.
Aveva qualcosa per le mani?
“No, anche perché ci teneva un po’ fuori da alcune cose”.
Quindi quel giorno non era depresso?
“Assolutamente no”.
E non aveva mai detto “Io qualche volta la faccio finita?”.
“No”.
Le risulta che lo avesse confidato a qualcuno?
“No. Eppure aveva dei carissimi amici, medici anche, ai quali avrebbe potuto confidare dei segreti di natura psicologica, un disagio”.
Riepiloghiamo: dunque da un lato suo marito assume un atteggiamento protettivo nei confronti della famiglia, dall’altro crea una situazione da tragedia greca.
“La cosa che mi lascia esterrefatta è questa: lui per i figli aveva una protezione eccessiva, non avrebbe mai fatto una cosa del genere”.
Passiamo alla lettera. Che alla fine si rivela decisiva per far pendere il piatto della bilancia a favore del suicidio. Perché?
“La calligrafia è sua, ci sono delle frasi, delle parole, delle sfumature che usava solo lui. Per esempio come chiamava i figli: Basy al posto di Basilio, con la y; e Gilduzza. Lui non parlava mai in dialetto, ma a volte, quando si rivolgeva a nostra figlia, si esprimeva con questo vezzeggiativo affettuoso che usava solo lui e in certi momenti”.
Se non ci fosse stata la lettera, avrebbe pensato al suicidio?
“Lo avrei escluso assolutamente”.
Nelle prossime puntate cercheremo di spiegare perché.
1^ puntata. Continua.
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