L’aria condizionata nei locali pubblici? E i giovani e gli anziani in pantaloncini e maglietta? E le donne in minigonna e senza calze? Signore e signori, ecco il Natale a New York, non il cine panettone che ci riservano ogni anno, ma il surreale che supera l’immaginifico, l’incredibile vissuto in diretta, il segno più che sostituisce il segno meno nel termometro delle condizioni meteorologiche, per giunta seguito da due cifre. Perché quando assisti a un fenomeno del genere, senti che qualcosa sta cambiando. È come quando, prima di un temporale, avverti che il tempo sta mutando perfino dall’odore dell’aria.
Certo, anche altrove c’è caldo a Natale, a Milano come a Bruxelles, a Madrid come a Oslo, ma una cosa è assistere a questo fenomeno dalla periferia dell’impero, un’altra è essere immersi nell’epicentro di questa allegra apocalisse che sta squagliando il mondo, e raccontarla “dal vivo”, mentre la vita ti scorre frenetica e tutti, in questa capitale fantasmagorica e brulicante di esseri umani, rispettosa delle regole, non caotica ed organizzatissima, sono intenti a vivere felicemente la fine del 2015 e l’inizio del 2016.
New York è un immenso museo d’arte moderna. I grattacieli di Manhattan e gli antichi palazzi (“antichi” per modo di dire, rispetto a quelli “preistorici” della Vecchia Europa) di mattoni rossi con le scale in ferro che, dall’esterno, comunicano da un piano all’altro; l’immenso albero di Natale del Rockefeller center; la gente che attraversa disciplinatamente la strada; e poi le avenue e le street, come le rette e le traverse del mio paese, gli straordinari musei da 30 dollari in su, le piste di pattinaggio, la metropolitana costruita all’inizio del ‘900 con le decorazioni liberty, le colonne in ghisa, l’uomo di colore che dorme in piedi sul treno, l’anziano signore che la mattina del 31 dicembre alla stazione della Lincoln square dice allegramente “Happy new year”, buon anno nuovo; l’abete “vero” incellophanato e buttato per strada dopo Natale, la coppia di sessantenni del jet set newyorkese (lui col bavero alzato, lei col foulard) che torna felicemente alle tre del mattino dopo aver trascorso il capodanno in casa di amici, la scultura in rame del Toro di Wall Street allestita dell’artista siciliano Arturo Di Modica, e la lunga fila di persone in spasmodica attesa che vuole toccare i testicoli dell’animale, portatori, secondo la fantasia americana, di “fortune da capogiro”.
“Imagine” a Central Park
Quindi Ground Zero, il luogo della strage alle Torri Gemelle, l’immenso vuoto lasciato dall’attentato terroristico, due buche sterminate e rivestite da lastre di granito attraversate da lievissimi disegni d’acqua, i nomi delle quasi 3mila vittime dell’11 Settembre 2001 impressi sulla pietra nera; le più disparate ipotesi sulla strage che si intuiscono dai discorsi della gente.
Siamo in pieno inverno eppure sembriamo in una mattina di inizio autunno, una mattina tiepida e crepuscolare, grigia, con le sfumature marroni che si colgono dalle foglie morte che tappezzano gli ottocentocinquanta ettari del Central park. La classica giornata newyorkese, vista decine di volte al cinema.
Di fronte al Palazzo Dakota, dimora di John Lennon – ancora abitata dalla moglie Yoko Ono – troviamo lo Strawberry Fields Memorial, il mosaico creato da artigiani campani e donato nel 1985 dalla città di Napoli per ricordare il fondatore dei Beatles ucciso l’8 dicembre 1980 da uno squilibrato. Seduto su un gradino del parco, un menestrello che canta Imagine, una delle canzoni più famose di Lennon, mentre uno scoiattolo ci guarda incuriosito e scappa su un albero.
Ma al di là delle sensazioni, delle emozioni e delle magie di questa metropoli, bisogna dire che oggi – secondo le persone con le quali abbiamo parlato – New York è la città più sicura del mondo. Sicura sul “fronte interno”, mentre su quello “esterno”… beh, si sta attrezzando.
Il fallimento della politica
Fino agli anni Novanta la microcriminalità aveva percentuali altissime. Dopo l’avvento di Rudolph Giuliani – l’ex sindaco italo-americano inventore della “tolleranza zero” – ti spiegano che qui è cambiato tutto: la delinquenza è stata praticamente azzerata, se prima un bianco non poteva entrare nel quartiere nero di Harlem, oggi si integra perfettamente con le altre razze, risultante di una politica fatta di repressione – che piace tanto ai repubblicani – ma anche di un risanamento fatto di campi di basket, di calcetto, di baseball, di scuole, di piazze, di parchi, di ospedali, di lavoro, che piace tanto ai democratici, anche se esiste ancora una sanità per i ricconi e una sanità per i poveracci, malgrado le battaglie di Obama in un parlamento in maggioranza repubblicano.
Però diciamocelo chiaramente. L’aria condizionata di questo dicembre newyorkese rappresenta il fallimento di una politica e di un modello economico che per decenni –nonostante l’impegno ambientalista del democratico Al Gore, ex vicepresidente degli Stati Uniti al tempo della presidenza Clinton – hanno detto no al programma di riduzione dell’anidride carbonica prodotta dai combustibili fossili bruciati dalle industrie, dalle caldaie e dalle macchine, in nome di un benessere frenetico che gli americani – dopo aver lottato secoli per conquistarlo – non vogliono sacrificare sull’altare di una “fine del mondo” annunciata dall’attuale e vero leader politico dell’umanità: Papa Francesco. Di fronte al quale anche il presidente Obama – sicuramente molto più sensibile dei Bush padre e figlio, suoi predecessori alla Casa Bianca, nonché esponenti di primo piano delle lobby del petrolio – in occasione della Conferenza internazionale sul clima tenutasi a Parigi nello scorso dicembre, si è fatto promotore della riduzione di due gradi nell’atmosfera entro i prossimi anni.
Se con Wojtyla abbiamo visto la fine del comunismo, chissà se con Bergoglio vedremo la fine del capitalismo selvaggio, brutta bestia che ci portiamo dentro e quindi molto più difficile da abbattere: l’ingordigia di denaro che porta i ricchi ad essere sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, con la conseguenza di nutrire odi, razzismi, rancori e pregiudizi.
Il cammino è lento ma qualcosa pare essersi mossa (malgrado il pessimismo di molti), ma chissà quando rivedremo l’orso polare scorrazzare nelle immense praterie bianche senza fermarsi di fronte al ghiaccio che frana, o il manto della foresta amazzonica di nuovo verde dopo le gravissime ferite che il mondo occidentale (America in testa) le ha inferto per disboscarne ampie porzioni per realizzare gli allevamenti di manzo per la produzione di milioni di hamburger destinati alle multinazionali del panino.
Chissà quando e se rivedremo queste cose.
Il grattacielo “art decò”
Intanto nella capitale del mondo moderno la “malattia asintomatica” prodotta dalla filosofia del “comprare di tutto anche se è di niente che hai bisogno” (per dirla con De Gregori) si manifesta attraverso questi segnali che la stragrande maggioranza del mondo occidentale preferisce attribuire al caso, ammirando col naso all’insù il bellissimo Chrysler, il grattacielo grigio in “art decò”, alto 319 metri, costruito nel 1930 in acciaio inossidabile per ospitare l’omonima casa automobilistica; o l’Empire State Building (in questo periodo suggestivamente illuminato a festa), ultimato nel ’31 e rimasto per diversi decenni l’edificio più alto di New York; o il Madison square garden che dalla fine dell’Ottocento ospita gli incontri di pugilato più celebri della storia, da quelli di Jack La Motta a quelli di Cassius Clay.
Ammiriamo estasiati il Mondo nuovo – come lo definirono milioni di emigrati poverissimi che dalla fine dell’Ottocento in poi trovarono ospitalità in questo pezzo di pianeta libero e solidale – ma non possiamo fare a meno, in mezzo alla marea di gente che da un’ora attende trepidante (con macchine fotografiche in mano) l’accensione di migliaia di lampadine che alle cinque della sera illumineranno la facciata dei Grandi magazzini Saks, di fronte al Rockefeller center, non possiamo fare a meno, dicevamo, di osservare il transennamento di Times square nel raggio di un chilometro, e gli elicotteri che ci rombano sopra la testa, e l’esercito di poliziotti che presidia i punti nevralgici della zona e non consente a nessuno di entrare se non munito del biglietto acquistato sei mesi prima e pagato centinaia di dollari per assistere alla festa di capodanno che – con le star di tutto il mondo – si celebra ogni 31 dicembre a Times square, nel bel mezzo di giganteschi display sfavillanti che pubblicizzano i colossi internazionali dell’abbigliamento, degli occhiali e del tabacco.
Il segno dei tempi che cambiano: una volta la polizia newyorkese si mobilitava contro la teppaglia di stupratori, di borseggiatori, di ladri, di papponi e di rapinatori che infestava la città. Ora si allerta contro un nemico esterno molto più pericoloso e invisibile: il terrorismo internazionale.
Trump e i musulmani
Te ne accorgi non appena metti piede sul suolo statunitense: due ore di fila all’aeroporto “John Fitzgerald Kennedy” perché le verifiche devono essere inflessibili: un poliziotto gentile e simpatico fa lo screening del passaporto, la scansione delle impronte palmari e digitali, perfino il controllo della pupilla mediante una micro telecamera (viene “schedata” anche quella); tutti devono essere schedati anche in uscita, nulla può sfuggire, ne va di mezzo la sicurezza, che dopo l’11 Settembre 2001 – anche prima, ma soprattutto dopo – è diventata la parola più usata dal popolo statunitense. Il messaggio che si intende lanciare è questo: l’America accoglie tutti, ma dopo l’attentato alle Torri gemelle abbiamo il dovere di sapere chi entra nel nostro Paese. Una procedura sacrosanta, ma un ulteriore segnale di una malattia che ha cause profonde.
Dice… Che connessione c’è fra il terrorismo, “l’effetto serra” e la bulimia di danaro, e soprattutto che connessione ha tutto questo con New York? Niente e tutto. Niente se di questa realtà osservi solamente un aspetto, se ti limiti a fotografare solo queste sublimi, meravigliose e fantasmagoriche torri d’acciaio sovrastate da edifici ancora più alti che sembrano montagne foderate da specchi, se pensi ad una società avanzata in tanti settori della vita pubblica, se pensi a quell’America che ha perso i suoi figli migliori per liberare il mondo, Italia compresa, dall’esercito più sanguinario della storia, se pensi a come ci abbia aiutati a ricostruire il Paese, se pensi al cinema, alla letteratura, alla pittura, all’architettura. Ma se allarghi l’obiettivo della macchina fotografica al mendicante di colore che chiede l’elemosina nella sontuosa Lexington Avenue, o al reduce della guerra – come si legge in quel cartello legato al collo – che dalla sedia a rotelle fa il medesimo gesto, capisci la complessità di una città che probabilmente è la metafora del Paese.
Ecco allora che senti l’esigenza di penetrare nell’anima più profonda di questa metropoli di otto milioni e quattrocentomila abitanti, partendo dai piccoli particolari come l’aria condizionata, l’esercito di poliziotti che presidia uno spettacolo (come se fosse un vertice di capi di Stato), i programmi televisivi sulla cui qualità si potrebbe discutere per ore, la grande visibilità che le Tv stanno dando al candidato repubblicano Donald Trump – avversario della democratica Hillary Clinton per le elezioni presidenziali del 2016 – magnate ed esponente dell’ala più estremista della destra americana, che teorizza il divieto di tutti i musulmani di entrare negli Stati Uniti.
Il sogno di Lennon
A un certo punto un’amica italiana residente qui da vent’anni ti spiega garbatamente che il newyorkese ama la vita comoda. Un appartamento al centro di Manhattan costa dai 3 ai 65 milioni di dollari, un addetto all’ascensore (quasi sempre di colore) percepisce tremila dollari al mese solo per pigiare un bottone, una visita sanitaria costa 500 dollari. Tutto è finalizzato al benessere (specie delle classi altolocate).
Prima dell’industrializzazione il petrolio era un combustibile fossile destinato a restare sottoterra, dopo ha dato benessere ma ha causato le cose più orrende, guerre, colpi di Stato, stragi, omicidi eccellenti (noi ne sdappiamo qualcosa con Mattei, De Mauro e Pasolini).
L’America di oggi, ad uno sprovveduto italiano, per giunta provinciale come il sottoscritto, probabilmente non appare quella immaginata dai nostri avi. Sembra somigliare sempre più a quelle bellissime ville piene di confort, cinte da altissime mura, presidiate da dobermann addestratissimi, con un dispositivo sofisticato e potente di allarmi, non perché è diventata improvvisamente inospitale, semplicemente perché ha paura.
La stessa paura che la porta ad installare nella lontana Sicilia, contro il volere della popolazione, un sistema come il Muos per il controllo satellitare del Mediterraneo, malgrado l’emissione – secondo autorevoli scienziati – di micidiali radiazioni elettromagnetiche che potrebbero causare malattie come tumori, leucemie e malformazioni infantili in tutta l’isola. La stessa paura che ha contrassegnato certe nefandezze consumate durante la “guerra fredda”,
E però – ti dicono – l’America resta sempre un grande Paese e riuscirà sempre ad essere più avanti degli altri. Per la semplice ragione che punta moltissime risorse sulla scuola, sull’università, sulla cultura e sul merito, bandendo ogni forma di raccomandazione. E però a volte non riesce a dialogare con una parte del mondo. Che paradosso!
Ecco perché sarebbe bello vedere un giorno che il figlio di chi ha sganciato le bombe sull’Iraq possa stringere la mano al figlio del terrorista che l’11 Settembre ha commesso l’attentato alle Torri gemelle. Man mano che passano i giorni a New York torna il freddo, ed è un bel freddo.
Luciano Mirone
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