È Paola Regeni, secondo “D”, il supplemento femminile del quotidiano La Repubblica, la donna dell’anno, seguita da altri nove straordinari simboli femminili che, al pari della Regeni, ammiriamo per il loro coraggio e la loro abnegazione nel portare avanti le loro battaglie civili.
Abbiamo semmai da obiettare – e tanto – sul fatto che una donna non meno combattiva, non meno dignitosa, non meno impegnata come Angela Manca sia stata ancora una volta oscurata dalla grande stampa.
Si potrebbe facilmente obiettare dicendo che questa classifica è frutto dei gusti dei lettori e non del giornale. Giusto. Ma ci chiediamo: i lettori di Repubblica – come quelli del Corriere della Sera, de La Stampa, e di molti altri giornali – sono stati messi nelle condizioni di conoscere la storia di Angela Manca, come si è fatto con le vicende per le quali queste dieci donne sono state scelte?
Ovviamente questo articolo non è assolutamente “contro” questa classifica (che, anzi, in linea di principio ci trova d’accordo. Certo, sulla Clinton sono state avanzate delle perplessità, ma non è questa la sede per discuterne), semmai si pone delle domande sul livello di conoscenza che il lettore medio possiede di certi fatti.
È da quasi tredici anni che Angela Manca lotta contro la mafia e i poteri occulti per ristabilire la verità sulla morte del figlio Attilio, il trentaquattrenne urologo di Barcellona Pozzo di Gotto trovato cadavere la mattina del 12 febbraio 2004 nel suo appartamento di Viterbo (città dove prestava servizio da due anni presso il locale ospedale) con due buchi al braccio sinistro e due siringhe trovate a poca distanza.
È da quasi tredici anni che questa donna combatte contro il mostruoso mulino a vento della Ragion di Stato – come Paola Regeni – per ristabilire la verità sullo strano decesso del figlio. Per il suo impegno l’hanno definita “pazza”, hanno cercato di avvelenarla (assieme al marito Gino) con delle sostanze venefiche fatte penetrare nel suo appartamento (con conseguenze gravissime per lo stato di salute di entrambi), tentano ogni giorno di fiaccarne il morale con insulti vergognosi proferiti anche in mezzo alla strada. Se qualcuno pensa che queste parole appaiono esagerate, è pregato di recarsi a Barcellona Pozzo di Gotto (Messina, Sicilia, Italia), dove nel ’92 è stato costruito il telecomando per la strage di Capaci e dove i giornalisti scomodi come Beppe Alfano vengono uccisi senza pietà.
Se qualcuno non crede a queste parole, è pregato di recarsi a casa Manca: troverà una dignità, ma allo stesso tempo un coraggio nel denunciare Cosa nostra, che poche altre volte abbiamo trovato.
Da anni lo scriviamo: la ricostruzione che gli inquirenti hanno fatto – overdose di eroina – sulla vicenda di Attilio Manca non convince affatto, specie se si pensa che non esiste una sola prova che supporti un assunto del genere, con l’aggravante che non si è indagato affatto sull’omicidio di mafia – ipotesi avanzata fin dall’inizio dalla famiglia – malgrado la fondamentale testimonianza di almeno tre collaboratori di giustizia (Setola, Lo Verso e D’Amico), che parlano di delitto commissionato dalla mafia ed eseguito dai servizi segreti deviati, perché Attilio Manca avrebbe visto cose e persone che non avrebbe dovuto vedere, e quindi sarebbe stato lo scomodo depositario di certi segreti legati, appunto, alla Ragion di Stato.
Questa storia è molto più complicata di quanto le istituzioni – basta leggere le motivazioni superficiali (per usare un eufemismo) con le quali ultimamente il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha liquidato una interrogazione parlamentare del Movimento 5 Stelle – voglia far credere. E porta direttamente all’operazione di cancro alla prostata eseguita a Marsiglia nel 2003 al boss dei boss Bernardo Provenzano, una patologia sulla quale l’urologo siciliano (uno dei migliori dell’epoca a livello nazionale e internazionale) era intervenuto per primo in Italia l’anno precedente (2002). Ebbene: esistono diversi elementi che portano a collegare la morte di Attilio Manca con l’operazione di un capomafia protetto dallo Stato per oltre quarant’anni.
Possibile che su una storia come questa – che possiede tutti gli elementi per fare delle ottime inchieste giornalistiche, per far vendere molte copie – da quasi tredici anni regni un silenzio così assordante?
D’accordissimo quindi su Paola Regeni – madre del giovane ricercatore barbaramente ucciso al Cairo lo scorso 25 gennaio in circostanze misteriose, dopo una serie di torture inaudite sulle quali il governo egiziano non ha voluto fare luce – “persona speciale” che “mette il proprio dolore al servizio degli altri” (come è stato scritto da “D” di Repubblica). D’accordissimo sulle altre nove donne presenti in questa speciale classifica, ovvero Lucia Annibaldi (sfigurata con l’acido dall’ex fidanzato), portabandiera di una battaglia contro i soprusi e le prepotenze subiti dalle donne; Giusy Nicolini, sindaco di Lampedusa, distintasi per l’accoglienza di migliaia di migranti sbarcati nella sua isola; e poi Samantha Cristoforetti, Malaia, Le Cicliste Afghane, Aung San Suu Kyi, Fabiola Gianotti, Maxima Acuna de Chaupe, e Hillary Clinton.
Ma il dubbio che affiora non riguarda questa graduatoria, semmai la qualità dell’informazione in Italia. Perché la grande stampa, su Attilio Manca, non ha usato la stessa determinazione mostrata per il caso Regeni? Perché sul ricercatore morto al Cairo ha sfidato il governo egiziano chiedendo a gran voce di togliere il segreto di Stato, e su Attilio Manca non ha fatto e non fa altrettanto col governo italiano?
Altra domanda: se una classifica del genere si fosse fatta attraverso i Social network, siamo sicuri che per Angela Manca sarebbe stato riservato lo stesso trattamento? Noi non ci giureremmo. Perché i Social network – con tutte le loro contraddizioni – non conoscono mediazioni, non conoscono Ragion di Stato, non conoscono censure. A volte mostrano meno strumenti culturali, ma sono più spontanei, stanno “sul pezzo” (come si dice in gergo giornalistico), mentre la grande stampa mostra un fiato corto preoccupante, appare sempre più incapsulata nelle categorie novecentesche del monopolio dell’informazione, quando il monopolio è finito da tempo e gli unici a non essersene accorti sembrano i grandi editori. O forse se ne sono accorti fin troppo, ma a loro evidentemente – malgrado la riduzione della tiratura dei giornali – sta bene così. Magari preferiscono licenziare i giornalisti, ma del caso Manca è meglio non parlare.
Luciano Mirone
Bellissimo articolo
Giustissimo!
In questo nostro Paese non si tratta di mettere in concorrenza persone straordinarie richiamate nell’articolo pubblicato in “D” Repubblica ma, al contrario, dobbiamo, sempre più, mettere in discussione la qualità e l’impegno civile di un’informazione latitante sulle stragi mafiose di stato che continuano a condizionare lo sviluppo democratico e civile del bel Paese!!!