È trascorso un anno dal clamoroso scoop del giornalista Nuccio Anselmo a proposito del caso di Attilio Manca. Un anno da quando è stato scritto che l’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Me) è stato ucciso dai servizi segreti deviati su ordine di Cosa nostra. Da allora nessun segnale è arrivato dalla Procura distrettuale antimafia di Roma che nel 2015 ha ereditato le indagini dai colleghi di Viterbo. Un anno da quando si disse che quell’articolo – che riprendeva le dichiarazioni clamorose del pentito barcellonese Carmelo D’Amico – avrebbe “dato una svolta alle indagini”, ma la situazione appare ferma a quel maledetto 12 febbraio 2004, quando il giovane urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) fu trovato morto nel suo appartamento di Viterbo – città dove lavorava nel locale ospedale da meno di due anni – con due buchi nel braccio sinistro (pur essendo un mancino puro) e due siringhe a pochi metri dal cadavere.
Le ipotesi sono due: o la Procura diretta da Giuseppe Pignatone sta lavorando in gran segreto e ha in serbo delle sorprese, oppure il caso Manca è stato collocato su un binario morto in attesa dell’archiviazione.
Prima di Natale i due legali della famiglia Manca, Antonio Ingroia e Fabio Repici, si sono recati nella Capitale per consegnare a Pignatone delle carte “molto interessanti” (qualcuno addirittura parla di “prove”) che dimostrerebbero due cose: 1) che il medico non si è suicidato con un’overdose di eroina (contrariamente a come da tredici anni sostengono senza prove gli inquirenti e il Gip di Viterbo). 2) E che è stato ucciso nell’ambito dell’intervento chirurgico al quale il boss Bernardo Provenzano – uno dei perni di Cosa nostra della trattativa Stato-mafia – è stato sottoposto nell’autunno del 2003 a Marsiglia.
Carmelo D’Amico, l’ex boss pentito di Barcellona Pozzo di Gotto, è stato perentorio: Attilio Manca è stato ucciso da un agente dei servizi segreti “molto abile nel far passare gli omicidi per suicidi” su ordine del boss barcellonese Rosario Pio Cattafi, e ha tirato in ballo un ex direttore del Sisde (di cui non ha fatto il nome), un ex generale dei carabinieri iscritto alla P2 e il circolo di Barcellona Pozzo di Gotto “Corda fratres”. Il motivo? Attilio Manca potrebbe essere l’urologo che in Italia ha visitato (per la diagnosi e la cura) Provenzano prima e dopo l’operazione. A dirlo è lo stesso D’Amico, che spiega di aver saputo la circostanza da Salvatore Rugolo, cognato del boss di Barcellona Pozzo di Gotto, Giuseppe Gullotti (mandante del delitto del giornalista Beppe Alfano, e consegnatario del telecomando della strage di Capaci) e dal boss Antonino Rotolo. Salvatore Rugolo è morto nel 2008 in seguito a un incidente stradale sul quale sono stati avanzati dei dubbi.
Poche parole ma pesanti quelle di D’Amico, che dopo i botti iniziali sembrano affievolirsi sempre più nelle coscienze di una opinione pubblica che trecentosessantacinque giorni fa sui social network, ai convegni e ai cortei appariva euforica come non mai.
Eppure D’Amico è stato circostanziato: fa il soprannome (non il nome) del presunto killer, ‘u brutto o ‘u calabrisi; dice che Rugolo ce l’aveva a morte con Cattafi perché aveva fatto uccidere Attilio Manca che – a suo dire – era “un suo caro amico”, spiega il giro “alto” che all’inizio del Duemila vuol far curare ‘u zu Binnu Provenzano: una triangolazione tutta da verificare che avrebbe come epicentro Barcellona Pozzo di Gotto e che riguarderebbe “il generale dei carabinieri vicino al circolo Corda fratres di Barcellona”, il quale, avendo saputo che il boss corleonese ha problemi con la prostata, informa Rosario Pio Cattafi dicendogli di metterlo in contatto con l’urologo Attilio Manca. Non si sa se Cattafi – sempre secondo D’Amico – abbia contattato direttamente Manca o lo abbia fatto contattare da altri. E però basta parlare con le persone giuste (e ci sono) per verificare se quanto detto da D’Amico sia vero o meno. E’ stato fatto?
I magistrati di Viterbo, in questi tredici anni, non si sono mai permessi di espletare tanti semplicissimi passaggi nella loro città figuriamoci una cosa un tantino più complessa per giunta in trasferta. Quelli di Roma mantengono uno strettissimo riserbo, che ci auguriamo contenga quelle verità che pochi, in questi tredici anni, hanno cercato. Quindi, ripetiamo, o si sta lavorando in gran segreto, oppure l’inchiesta rischia di finire nel nulla, malgrado i molteplici fatti affiorati.
Non bisogna dimenticare che prima di D’Amico hanno parlato del caso Manca altri due pentiti dal pedigree mafioso molto solido: Giuseppe Setola, capo del clan dei Casalesi (compagno di carcere di Giuseppe Gullotti, dal quale avrebbe appreso particolari interessanti) e Stefano Lo Verso, ex braccio destro di Bernardo Provenzano, e quindi depositario “diretto” dei segreti del boss. Possibile che tutti dicano fandonie?
In ogni caso, se quel che dice D’Amico (e Setola e Lo Verso) è vero, ci sono tutti gli elementi per dire che la storia è grossa.
Grossa sì, ma non per Viterbo: a cominciare dalla Procura, passando dal Gip, e poi via via a catena… il giudice monocratico che ha estromesso clamorosamente la famiglia Manca dalla parte civile nel processo tuttora in corso per “cessione di eroina” (unica imputata, una donna romana, Monica Mileti), la Squadra mobile, il Medico legale che ha effettuato l’autopsia. Ognuno con delle responsabilità gravissime cui mai nessuno ha chiesto conto. Non solo non è successo niente, ma qualcuno di questi (vedi il Medico legale Dalila Ranalletta) ha pure fatto una brillante carriera.
In questi trecentosessantacinque giorni, sul caso Manca, ne sono successe di cose, tutte scivolate come l’acqua sul corpo di uno Stato che fa la voce grossa su un caso come quello di Giulio Regeni verificatosi all’estero, mentre si dimostra omertoso se un caso analogo si svolge in Italia, magari con il coinvolgimento di certe entità innominabili.
Come dimenticare la risposta data dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando, all’interrogazione presentata dal senatore del Movimento 5 Stelle, Maurizio Santangelo, che in modo circostanziato ha messo in evidenza le contraddizioni dell’inchiesta di Viterbo, chiedendo al ministro un’ispezione in quel Tribunale. Incredibile la replica del titolare del dicastero di via Arenula che, senza tenere in considerazione le omissioni, le dimenticanze, i falsi che caratterizzano l’indagine, ha sposato tout court la versione ufficiale della morte per overdose, con buona pace dei possibili mandanti e assassini.
Come dimenticare i tentativi di avvelenamento dei genitori di Attilio Manca attraverso una sostanza venefica fatta penetrare nell’appartamento, dove per mesi Angela e Gino hanno dovuto respirare i metalli pesanti trovati nel fegato e in altri organi delicati del loro corpo già provato, nel corso degli accertamenti medici?
Come dimenticare la clamorosa inchiesta fatta da questo giornale con un’intervista a puntate con un professore di Medicina legale al quale sono state mostrate le immagini del corpo di Attilio Manca fotografato dalla polizia quando la mattina del 12 febbraio 2004 è stato trovato morto, in comparazione con il referto autoptico, con i verbali di sopralluogo, con le relazioni integrative del Medico legale. L’autopsia presenta tali e tante di quelle anomalie, di quelle omissioni, di quelle dimenticanze che tutto questo non può essere frutto di imperizia o di inesperienza. Anche in quel caso sembrava che tutto dovesse cambiare, invece tutto è scivolato via. Ancora una volta. Oggi come ieri. Ieri come tredici anni fa.
Luciano Mirone
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