Egregi Magistrati di Viterbo, la sentenza che avete emesso ieri, nell’ambito del processo Manca, ricorda certi modelli nei quali si intravede il coinvolgimento di pezzi dello Stato che condizionano l’intera struttura dibattimentale. Dai processi sulle stragi ai processi sui delitti eccellenti, nel corso di questi decenni abbiamo assistito a una costante impunità dei mandanti, con condanne – laddove ci sono state – inflitte soltanto all’ala militare oppure a personaggi minori entrati forzatamente o incidentalmente nelle vicende. Pensiamo – a mo’ di esempio – a Portella della Ginestra, a Piazza Fontana, al caso Moro, ai delitti Pecorelli, Dalla Chiesa, Ilaria Alpi, alle stragi Chinnici, Falcone e Borsellino.
Egregi Magistrati di Viterbo, noi non diciamo che vi siete comportati con la stessa malafede di alcuni vostri colleghi del passato, ma sappiamo per certo che non tutti gli elementi a vostra disposizione sono stati utilizzati far luce sul caso di Attilio Manca. E sappiamo pure che – se quello che diciamo è vero – la sentenza emessa ieri ha un merito: di avere evidenziato, ancora una volta, che la storia è molto più grossa di quello che si possa credere, lambisce sì Provenzano, ma potrebbe spingersi oltre, molto oltre. Sennò, Egregi Magistrati di Viterbo, certe cappellate non le avreste mai commesse, ne siamo certi.
Con la sentenza “esemplare” di ieri – 5 anni e 4 mesi di carcere (un anno in più di quanto richiesto dal Pm), 18mila Euro di multa, e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per Monica Mileti, accusata di avere ceduto l’eroina fatale ad Attilio Manca – non avete condannato solo il personaggio “minore” (almeno secondo quanto emerge dalla lettura completa degli atti processuali), ma avete condannato la vittima, accusata, senza lo straccio di una prova, di essere un “occasionale” assuntore di eroina, come avete sostenuto fin dal momento in cui (12 febbraio 2004) Attilio Manca lo avete trovato morto nel suo appartamento di Viterbo, città nella quale lavorava da un paio d’anni all’ospedale “Belcolle”.
Da quel giorno, egregi Magistrati di Viterbo, avete deciso che Attilio Manca “doveva” morire per overdose di eroina, avete rifiutato categoricamente di seguire piste alternative, di confrontarvi con la famiglia e con i suoi legali, ma soprattutto avete rifiutato volutamente di misurarvi con i fatti, che, ci perdonerete per la presunzione (ma abbiamo letto le carte), non sono esattamente come li avete descritti.
Dal giorno della morte di Attilio Manca, trentaquattrenne urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), luogo di micidiali cointeressenze fra mafia, politica e servizi segreti deviati, avete costruito la vostra verità, non “la” verità. Questo anche grazie al contributo dell’ex capo della Squadra mobile Salvatore Gava; del Medico legale Dalila Ranalletta, autrice dell’autopsia, e di altri incredibili personaggi.
La verità – voi ci insegnate – è sempre frutto di un contraddittorio fra le parti. Ebbene: voi questo contraddittorio, fin dall’inizio, non avete voluto accettarlo, avete voluto portare avanti un’indagine a senso unico, piena di omissioni, di “buchi neri”,di falsità. Vi siete fatti una indagine in famiglia e vi siete blindati, forti del fatto che in questi tredici anni nessun ministro ha mai ritenuto di ordinare delle ispezioni nei vostri Uffici, malgrado le varie richieste parlamentari.
Al processo “per droga” imbastito formalmente contro la “spacciatrice” Monica Mileti, ma celebrato sostanzialmente contro l’”assuntore occasionale” Attilio Manca (avete capito bene? Assuntore-occasionale-di-eroina, una contraddizione grande quanto una casa, specie per un chirurgo che in sala operatoria deve arrivare sempre lucido), vi siete superati, non ammettendo come parte civile la famiglia della vittima e privando il dibattimento dell’elemento indispensabile in un processo: il contraddittorio.
Secondo il dizionario della lingua italiana, dibattimento vuol dire dibattito, disputa, discussione. Se un dibattimento non si svolge fra parti contrapposte che dibattimento è? Ecco: il processo Manca sembra più un rito celebrato in un Paese del Sudamerica o dell’Europa di altri tempi, che un momento di alta civiltà giuridica celebrato in uno Stato di diritto.
Ci rendiamo conto che è pesante quello che diciamo, ma qualcuno può spiegare in quale sistema democratico si dà credito a un testimone come Lelio Coppolino (“amico” della vittima e accusato di falsa testimonianza a Messina nell’ambito del processo per l’omicidio del giornalista di Barcellona Pozzo di Gotto, Beppe Alfano) che in un primo momento smentisce “categoricamente” l’uso di stupefacenti di Attilio e successivamente dice il contrario? Qualcuno può spiegare in quale sistema democratico non vengono presi in considerazione ben quattro pentiti del calibro di Setola, Lo Verso, D’Amico e Campo, che sostengono che l’urologo è stato ucciso dai servizi segreti deviati, con la complicità della mafia di Barcellona, perché Manca aveva assistito sanitariamente Bernardo Provenzano prima, durante e dopo l’operazione di cancro alla prostata avvenuta a Marsiglia nell’autunno del 2003, scoprendone la vera identità? Qualcuno può spiegare perché l’ex capo della Squadra mobile Salvatore Gava ha scritto in un rapporto che nei giorni dell’operazione di Provenzano, Attilio Manca si trovava regolarmente in ospedale a Viterbo, mentre dai registri delle presenze risulta il contrario? Qualcuno può spiegare perché la dottoressa Dalila Ranalletta – fra le tante omissioni di cui si è resa protagonista – nel referto autoptico evita di descrivere lo stato del naso (deviato), delle labbra (gonfie e tumefatte) e dei testicoli (mostruosamente gonfi) e delle ecchimosi della vittima, che appaiono più i segni di un tremendo pestaggio piuttosto che di una morte per overdose? Qualcuno può spiegare perché Ugo Manca (cugino di Attilio), di cui è stata trovata un’impronta palmare nell’appartamento del medico, da Barcellona si precipita a Viterbo subito dopo la morte del congiunto? O perché – secondo la testimonianza dei genitori e del fratello del medico – Ugo Manca ha l’esigenza di entrare “subito” in quell’appartamento? Qualcuno può spiegare perché Ugo Manca chiede ripetutamente a Gianluca (fratello dell’urologo) il dissequestro di quella casa? Ugo Manca non è un personaggio qualsiasi. È molto vicino alla mafia di Barcellona Pozzo di Gotto ed è stato condannato in primo grado (poi assolto) per traffico di stupefacenti. Qualcuno può spiegare perché nell’alloggio di Attilio Manca non c’erano gli oggetti necessari per drogarsi, ovvero il laccio emostatico, l’involucro di carta stagnola e il cucchiaio sciogli-eroina? In compenso c’erano due siringhe con tappo salva ago e salva stantuffo ancora inseriti. Qualcuno può spiegare in base a quali prove la Procura e il Gip di Viterbo hanno detto che dopo le due “pere” di eroina, Attilio Manca è andato in strada, ha buttato nel cassonetto il laccio emostatico e la carta stagnola, è tornato nell’appartamento, ha lavato il cucchiaio, si è dimenticato di disfarsi delle siringhe, si è massacrato il volto e poi è caduto sul letto? Qualcuno può spiegare perché quelle siringhe sono state analizzate solo otto anni dopo, senza il ritrovamento di una sola traccia di impronta? Qualcuno può spiegare perché – se non sono state trovate tracce di impronte – si parla di “inoculazione volontaria” da parte della vittima? Qualcuno può spiegare dove sono le prove che Monica Mileti ha venduto al medico la droga “fatale”?
Nessuno, in questi tredici anni, ha mai spiegato nulla. L’unica occasione per farlo sarebbe stato il processo. I legali della famiglia Manca (gli avvocati Antonio Ingroia e Fabio Repici) avrebbero potuto interloquire con l’accusa, citare dei testimoni e avrebbero potuto porre delle domande all’ex capo della Squadra mobile Salvatore Gava, al Medico legale Dalila Ranalletta, a Ugo Manca, agli altri “amici” barcellonesi ai quali voi, Egregi Magistrati, avete dato credito, pur conoscendo le dichiarazioni contraddittorie che vi hanno fornito, a fronte delle numerose testimonianze di fior di professionisti che nel corso delle indagini hanno affermato che Attilio Manca odiava la droga. E perché, Egregi Magistrati di Viterbo, non avete approfondito il contesto barcellonese entro il quale questi “preziosi” testimoni operano?
Ma siccome il dibattimento è stato svuotato del contraddittorio, abbiamo assistito ad un processo a senso unico. Angela Manca – madre di Attilio – parla di “processo-farsa”. Peggio, signora Manca, peggio. Questo non è un processo. Se vogliamo definirlo tale dobbiamo definirlo, come detto, processo da regime sudamericano. Delle due l’una: o chi ha omesso, falsato e depistato le indagini ha agito con sconcertante incompetenza (e questo siamo portati ad escluderlo), oppure c’è stato qualcuno che ha protetto le spalle a tutti. Basta leggere le dichiarazioni rilasciate ieri dal nuovo capo della Procura di Viterbo, Paolo Auriemma, che ha ripetuto le cose dette per anni dal suo predecessore Alberto Pazienti: ”Che Manca fosse un assuntore sporadico di sostanze stupefacenti lo dicono le testimonianze di persone incensurate, tutti professionisti, con nessun interesse a mentire”. La pista mafiosa citata da ben quattro pentiti? “Supposizioni fantasiose”. Le stesse dichiarazioni sono state fatte da fior di ministri della Giustizia – compreso l’ultimo Andrea Orlando – succedutisi in questi tredici anni.
Adesso il pallino passa alla Procura distrettuale antimafia di Roma, dove sono confluite le dichiarazioni dei quattro pentiti Setola, Lo Verso, D’Amico e Campo. Il procuratore Giuseppe Pignatone ha aperto un fascicolo contro ignoti. Ipotesi di reato: omicidio. Ma la vicenda sembra più grossa di quanto si creda.
Luciano Mirone
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