“Berlusca mi ha chiesto questa cortesia… per questo c’è stata l’urgenza. Lui voleva scendere… Però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa”. Qual è la “cortesia”, “l’urgenza” e la “bella cosa”, il boss Giuseppe Graviano non lo dice direttamente al co-detenuto col quale trascorreva l’ora d’aria nel carcere di Ascoli Piceno. Ma nel contesto delle conversazioni che riguardano Berlusconi e le stragi del ’92, lo fa capire al suo interlocutore, e le ambientali disseminate nei punti più nevralgici della galera registrano queste frasi ritenute “molto interessanti”, tanto che i magistrati che si occupano del processo trattativa Stato-mafia (in primis il Pm Nino Di Matteo), le depositano in dibattimento suscitando le ire del legale dell’ex cavaliere, Niccolò Ghedini, senatore di Forza Italia, che parla di “giustizia a orologeria”.
“Poi nel ’93 – prosegue Graviano – ci sono state altre stragi”. “Ma no che era la mafia”. Una frase quest’ultima che contiene delle assonanze che soltanto un siciliano può comprendere. Sostanzialmente vuol dire: quella strage non l’ha voluta la mafia, o comunque non “solo” la mafia. “Loro – seguita Graviano – dicono che era la mafia”, evidentemente per scaricare tutte le responsabilità a Cosa nostra, ma Cosa nostra – secondo Graviano – c’entra fino a un certo punto.
“Allora il governo – dice ancora il boss – ha deciso di allentare il 41 bis, poi hanno levato pure i 450″. L’allusione riguarda la decisione, presa nel novembre del ’93, di revocare il carcere duro per 450 mafiosi. Poi ancora una stoccata contro l’ex presidente del Consiglio: “Berlusconi quando ha iniziato negli anni ’70 ha iniziato con i piedi giusti, mettiamoci la fortuna che si è ritrovato ad essere quello che è”. E fin qui la posizione di Graviano nei confronti dell’ex Cavaliere può essere ritenuta alquanto “moderata”. Nei brani successivi comincia il crescendo: “Quando lui si è ritrovato un partito, nel ’94, si è ubriacato e ha detto ‘Non posso dividere quello che ho con chi mi ha aiutato’. Pigliò le distanze e ha fatto il traditore”. Una locuzione in cui il boss vuole dire che Berlusconi, dopo essere sceso in politica con l’aiuto di Cosa nostra, ha fatto una giravolta decidendo di “non dividere” il suo potere con chi lo aveva “aiutato”.
A quel punto, la conversazione di Graviano diventa uno sfogo: “Tu lo sai che mi sono fatto 24 anni, ho la famiglia distrutta…”. Il “tu” sarebbe riferito ancora al leader di Forza Italia. E il risultato qual è? Che “alle buttane glieli dà i soldi ogni mese”. Le “buttane” sarebbero le olgettine, le protagoniste del Bunga bunga per le quali Berlusconi avrebbe scucito “soldi ogni mese”. Mentre “io” (cioè Graviano) “ti ho aspettato fino adesso … e tu mi stai facendo morire in galera senza che io abbia fatto niente”. Il riferimento probabilmente riguarda gli accordi che sarebbero stati presi alla vigilia della “scesa in campo” di Berlusconi fra questo e Cosa nostra (almeno secondo quanto emerge dalla lettura delle carte processuali). E infine: io “ti ho portato benessere. 24 anni fa mi arrestano e tu cominci a pugnalarmi”.
L’avvocato Ghedini – come detto – minimizza le dichiarazioni del boss: “Dalle intercettazioni ambientali di Giuseppe Graviano, depositate dalla Procura di Palermo, composte da migliaia di pagine, corrispondenti a centinaia di ore di captazioni, vengono enucleate poche parole decontestualizzate che si riferirebbero asseritamente a Berlusconi. Tale interpretazione è destituita di ogni fondamento non avendo mai avuto alcun contatto il Presidente Berlusconi né diretto né indiretto con il signor Graviano”.
Si tratta di affermazioni tuttora al vaglio della magistratura. Affermazioni che si aggiungono alle dichiarazioni di altri pentiti, agli indizi trovati dai magistrati, che in questo quarto di secolo hanno visto Silvio Berlusconi al centro di una delle vicende (le stragi degli anni Novanta) più traumatiche della storia d’Italia.
Non sappiamo né se Berlusconi c’entri davvero, né come andrà a finire, ma sappiamo come è andata a finire all’ex sette volte presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, ritenuto colluso fino al 1980, malgrado la sua “piena consapevolezza” del progetto di morte che riguardava l’ex presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, fratello dell’attuale presidente della Repubblica. Una “piena consapevolezza” di cui il Divo Giulio ebbe contezza nel corso di un summit di mafia – al quale, secondo i magistrati, partecipò anche lui – con l’ex boss palermitano Stefano Bontate. Il fatto avvenne un anno dopo dell’uccisione dell’ex leader democristiano Aldo Moro, altro delitto nel quale, secondo il giornalista Mino Pecorelli e diversi magistrati che si sono occupati del caso, la presenza di Andreotti è tutt’altro che casuale. Quando Andreotti – alla vigilia del delitto Mattarella – chiese conto e ragione del progetto di morte, Bontate rispose: “Presidente, ormai è deciso, che le piaccia o no”. Il presidente annuì e lasciò uccidere Piersanti, senza svelare il segreto ad alcun magistrato, ma in compenso dominando la scena politica per altri vent’anni. Poi uccisero Salvo Lima e due mesi dopo fecero a pezzi Falcone. Andreotti non diventò presidente della Repubblica – come era stato previsto – e da quel momento la sua carriera volse al tramonto, caratterizzata da una miriade di accuse, di sospetti, alcuni processi dai quali se l’è sempre cavata, ma mai un giorno di carcere.
Sul firmamento della politica italiana cominciò a brillare improvvisamente la nuova stella di Silvio Berlusconi. Cosa avvenne realmente lo sappiamo a spizzichi e bocconi, ma il mosaico chissà quando sarà completato. Sono passati “solo” venticinque anni.
Luciano Mirone
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