“Quel terribile ’92” è il libro d’esordio di Aaron Pettinari, capo redattore di Antimafia Duemila, che con la sua “opera prima” racconta uno dei momenti più drammatici della storia d’Italia (e non solo). Il volume si sofferma su un anno che probabilmente in futuro sarà studiato nei libri di scuola per la dirompenza che ebbe nel nostro Paese per due fenomeni che si intrecciarono tragicamente fra loro: le stragi di Capaci e di via D’Amelio e Tangentopoli. In queste pagine (a cura di Pietro Orsatti, con postfazione di Salvatore Borsellino), Aaron raccoglie “25 voci per raccontare l’anno che cambiò la storia” (questo il sottotitolo), 25 persone che danno una testimonianza diretta di ciò che avvenne in quell’anno terribile. Nel capitolo che segue la testimonianza del regista messinese Ninni Bruschetta.
Ninni Bruschetta. 12 marzo ‘92. A Palermo viene ucciso da Cosa Nostra Salvo Lima, deputato della Democrazia Cristiana al Parlamento europeo, ex sindaco della città e capo della locale corrente andreottiana.
«Pensando a quegli anni ho sempre riflettuto su una cosa spaventosa, quasi oscena. Ma quanto scopavano i socialisti? È un dato di fatto. Al tempo se volevi lavorare, per trovare i contributi per fare teatro dovevi avere a che fare con i politici. E questi dopo gli ap- puntamenti di lavoro ti chiedevano la cortesia di accompagnarli al ristorante, nei locali. Pensavano solo a quello. In realtà ciò che venne dopo con Berlusconi, le cene eleganti, il “bunga bunga” è stato solo la prosecuzione dell’attività orgiastica che i socialisti riuscivano a condurre a Roma, che era il centro di tutto, il caput mundi anche in questo senso. È quello stile che abbiamo visto riportato nel film La grande bellezza di Sorrentino. Quante figure simili al personaggio di Jep Gambardella ho conosciuto. Era anche quella un’ostentazione del potere che si manifestava nella violenza, nell’impossessarsi di ciò che non avevano mai avuto. Loro se lo prendevano. Era come ai tempi di Mussolini, di una donna al giorno in ufficio. Era tutto così». Ninni Bruschetta, regista teatrale, attore e sceneggiatore, la fine degli anni Ottanta e i primi del Novanta li ricorda così, sfacciati.
«C’è sempre stata una forte relazione tra sesso e potere. Credo di non aver mai visto una donna degna di tal nome innamorarsi veramente di un politico, di quello che fa. Magari si innamorano dei soldi che muovono, del potere. Forse perché si è perso il senso della politica. Il politico dovrebbe essere capace di incantare con le sue parole, come faceva Giorgio Gaber, che politico non era. Non ascolto spesso le sue canzoni ma ogni volta mi commuovo per la bellezza e l’intelligenza di quello che diceva. Da quanto tempo non sentiamo discorsi simili dai politici? Forse l’ultimo nel mondo è stato Obama. In Italia non esistono figure così e ci troviamo ad avere un Governo che il giorno prima fa una legge che toglie poteri all’anticorruzione e il giorno dopo dice semplicemente di aver sbagliato, di aver commesso un errore tecnico. Dovrebbero dimettersi in blocco ma non lo fanno. Tanto nel grande quanto nel piccolo. Siamo nel Paese in cui il sindaco del Movimento Cinque Stelle, populista e giustizialista, è stato scoperto avere tre assicurazioni sulla vita pagate da un corrotto. Invece di dimettersi cosa dice? Che non ne sapeva niente. E alla fine scopri che sono tutti dei cialtroni».
«Di fronte a certi scandali nel ‘92 c’era una capacità di reazione maggiore. Io vivevo a Roma da due anni e ricordo ciò che avvenne davanti all’hotel Raphael. Quel giorno mi trovavo in una gelateria vicino a piazza Navona, ad un certo punto ho sentito un gran trambusto. Non mi resi subito conto del perché c’era tutta quella gente. Poi dall’hotel uscì Craxi. E venne il caos con quella pioggia di monetine. Per me, che avevo trent’anni, Tangentopoli era come una speranza di un cambiamento possibile. Tutto girava attorno a questa figura retorica dell’avviso di garanzia. Quel sistema giuridico di grande civiltà diventò in un attimo un’arma sul piano della comunicazione. Nell’arco di una settimana arrivarono una cosa come dieci avvisi di garanzia al solo leader del Partito socialista. Fu una festa improvvisa. In tanti finsero di non ricordare che fino ad un momento prima avevano mangiato dal piatto di quei delinquenti. E poi c’era l’immagine di Di Pietro. C’è questa scena dell’interrogatorio a Umberto Bossi, il giustizialista, l’uomo del cappio in parlamento che ammetteva di aver incassato duecento milioni dalla Ferruzzi- Montedison. Di Pietro fece questo interrogatorio strepitoso in cui finisce togliendosi la toga ed urlando come un pazzo, una chiusa solenne alla Gassman: “Come sempre. Come tutti. Piaccia o non piaccia”». Scene d’altri tempi.
Alla speranza di una nuova politica fanno da contraltare le stragi. «Il 23 maggio non ho idea di dove fossi. Non mi spiego il perché. So solo che quella notizia fu motivo di grande dolore. Il 19 luglio no, è rimasto stampato nella memoria. Quel giorno ero a Roma assieme ad alcuni colleghi, Roberto Di Francesco, Francesco Calogero e qualcun altro. Quando è giunta la notizia presi dallo sgomento uscimmo di casa. Vagavamo per la città senza una direzione precisa. Arrivammo fino al Parlamento dove in quel momento si stava tenendo una veglia funebre improvvisata. Ci avvicinammo e, presa in mano una candela, ci sedemmo accanto a questi ragazzi. Ad un certo punto qualcuno di noi si accorse che quella non era una veglia come le altre. “Ma questi son fascisti!” Era noto che Borsellino fosse simpatizzante del movimento sociale. Per un attimo ci assalì il dubbio se andarcene o restare. Ce ne fregammo. Perché in quel momento, il motivo per cui eravamo lì, andava oltre la politica».
«In quel periodo un amico druso-israeliano, che aveva studiato a Messina, aveva deciso di sposarsi e ci invitò al suo matrimonio ad Haifa. Erano i giorni in cui gli Hezbollah attaccavano Israele e gli americani avevano trovato nei sobborghi alcuni Scud (sistema di difesa antimissili). Ricordo ancora quella telefonata in cui gli dissi: “Ma noi non possiamo venire al matrimonio. Come perché? È logico, c’è la guerra”. La sua risposta fu secca: “Perché da voi no?”. In quella battuta così immediata e semplice c’è la descrizione di quello che era il clima che si respirava in Sicilia. C’era più di un morto al giorno, c’erano state le stragi e quindi sul piano quantitativo era molto più pericoloso stare in Italia che in Israele. Perché le stragi non si fermarono. Ci furono Firenze, Milano, Roma. Dieci anni dopo partecipai ad uno spettacolo, Il mio nome è Caino, proprio davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro. L’occasione era data dal giorno della memoria dell’Olocausto ma c’era anche altro da ricordare».
«La prima volta che andai a Palermo rimasi colpito da un fatto. Al tempo non esisteva Google map e con un collega avevamo bisogno di un nastro magnetico, uno di quelli per far scrivere le prime macchine elettroniche. Per questo cercavamo un negozio della Canon. Entrai da un tabaccaio per avere l’informazione e questi rispose: “Subito dopo la piazza, accanto alle scale dove hanno ammazzato il Questore”. Restai di sasso di fronte a quell’indicazione così agghiacciante. A Palermo ogni via ha il suo morto.
Un pellegrinaggio che è stato mostrato perfettamente da Pif nel film La mafia uccide solo d’estate. Non che a Messina non ci fossero mai stati i morti. C’era chi pensava che la mafia non ci fosse, ma la realtà era ben diversa. In quelle terre si sono nascosti grandi latitanti, poi sono morti giornalisti come Beppe Alfano o ragazzine come Graziella Campagna».
«In questi anni ho recitato in tanti film che trattavano certi temi ed ho conosciuto diverse storie. Come quella del commissario Ninni Cassarà. Quel poliziotto che aveva il mio stesso nome lo interpretai nel film Paolo Borsellino di Gianluca Tavarelli. Mi è stato raccontato che una volta, mentre passava davanti casa in compagnia di suo cognato disse: “Qui mi uccideranno”. Così è stato. In Sicilia sono tante le storie drammatiche delle quali non si vuole parlare. Come la vicenda della trattativa Stato-mafia, a mio parere ancora in atto. Sabina Guzzanti ha fatto un film su questo ed è stato boicottato in ogni modo. Forse si deve tornare a Pasolini o a qualche film di Fellini per ricordare qualcosa di simile».
Aaron Pettinari
Mi scuso ma per me una scoperta. Documentato e in pubblico forbito palatore