Dunque nei giorni scorsi Antonio Ingroia – legale della famiglia di Attilio Manca – è stato condannato in primo grado (in sede civile) per calunnia: secondo il giudice ha offeso l’onore dell’ex Pm di Viterbo Renzo Petroselli (oggi in pensione) nel contesto dell’indagine che quest’ultimo ha portato avanti per oltre un decennio sulla morte dell’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) Attilio Manca, trovato morto nella sua abitazione di Viterbo con due buchi al braccio sinistro (cosa praticamente impossibile, dato che il medico era un mancino puro) e due siringhe a pochi metri, con tappo salva ago e salva stantuffo ancora inseriti, sulle quali, malgrado una perizia effettuata ben otto anni dopo, non è stata trovata traccia di impronte, né della vittima né di altri.
Una morte che ha portato Petroselli, nonché l’ex procuratore Alberto Pazienti (anche lui in pensione), e il Gip Salvatore Fanti ad essere “certi” fin dall’inizio che il giovane medico fosse morto per “inoculazione volontaria” di eroina. Peccato che questa “certezza” non è mai stata suffragata dallo straccio di una prova per le mille ragioni che abbiamo spiegato nei nostri articoli (consultabili in questo giornale) e in un libro uscito nel 2014 (“Attilio Manca. Un ‘suicidio’ di mafia”, Castelvecchi editore), dove si dimostra con dati scientifici che la tesi dei magistrati laziali presenta tali e tante incongruenze da non risultare credibile perfino ai componenti della Commissione parlamentare antimafia che li hanno ascoltati un paio di volte.
Basta riascoltare le registrazioni proposte da Radio Radicale per comprendere come Petroselli e Pazienti davanti all’Antimafia cadano in contraddizione parecchie volte, o basta rivedere la conferenza stampa che i due magistrati hanno convocato parecchi anni dopo la morte dell’urologo per dedurre che le indagini presentano lacune incredibili su diversi fronti, senza contare che non vengono mai contrassegnate dal beneficio del dubbio dell’ipotesi alternativa, quella dell’omicidio, né hanno mai supposto eventuali sicari e mandanti, malgrado le dichiarazioni di ben quattro pentiti (Setola, Lo Verso, D’Amico e Campo). I quali – seppure con particolari diversi, ma comunque riconducibili all’omicidio di mafia – hanno sempre sostenuto che Attilio Manca è stato ucciso (dichiarazioni univoche di tutti e quattro) da un uomo dei servizi segreti deviati su disposizione del boss di Barcellona Pozzo di Gotto, Saro Cattafi (dichiarazione di D’Amico), perché il medico avrebbe riconosciuto la vera identità di quel Gaspare Troia, sotto le cui mentite spoglie si nascondeva il boss Bernardo Provenzano per l’operazione di cancro alla prostata alla quale nel 2013 questi si era sottoposto in quel di Marsiglia, con Attilio Manca che avrebbe avuto un ruolo soprattutto nella fase diagnostica, e nella fase post operatoria, probabilmente in Italia, e segnatamente nell’asse Barcellona Pozzo di Gotto-Viterbo, dove il boss corleonese avrebbe trascorso parte della sua latitanza.
Specialmente a Barcellona, “Binnu ‘u tratturi” avrebbe trovato protettori di prim’ordine – almeno stando agli atti giudiziari – come tempo prima era successo ad un altro boss di Stato come Nitto Santapaola, nascosto nella cittadina siciliana proprio mentre si consumava un altro omicidio eccellente: quello del giornalista Beppe Alfano, che secondo quanto emerge dalle carte processuali, è stato ucciso perché aveva scoperto il covo barcellonese del capomafia catanese.
A Viterbo, in questi tredici anni, tutto questo (e molto altro) non è stato minimamente preso in considerazione, col risultato che ad essere processata e condannata è stata la vittima, e ora l’avvocato della sua famiglia. Una condanna, quest’ultima, avvenuta in sede civile, luogo del tutto differente da quello penale, dove un’approfondita indagine del Pm può verificare se la “calunnia” poggia su dati fattuali o meno.
Un sottile bizantinismo giuridico che fa il paio con l’estromissione della famiglia Manca dal processo di Viterbo “per droga” contro la presunta spacciatrice Monica Mileti, condannata in primo grado per avere ceduto la “dose fatale” ad Attilio. In quel dibattimento il padre, la madre e il fratello dell’urologo non sono stati ammessi come parte civile proprio su richiesta del Pm Petroselli. Rimane in piedi l’indagine “per mafia” condotta dalla Procura di Roma diretta da Giuseppe Pignatone. Non c’è da stare molto allegri. Secondo lo stesso Ingroia, l’inchiesta si avvia all’archiviazione.
Luciano Mirone
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