Non sono stato a mare questa estate più di una volta, un mese fa. Un lungo bagno in un pomeriggio nella spiaggia delle Capannine, a Catania.
Da una parte vicini e a mollo in mare un gruppo di ragazzi, dall’altra guardavo la nostra Etna.
Mentre nuotavo ho pensato alla gente che arriva in questo mare; anche loro, lontano nel mare aperto, non molto lontano da noi, prima di essere salvati avranno detto a se stessi, quale meraviglia sia la terra dove stavano arrivando se il Buon Dio…
Ho pensato alle mamme, ai bambini, ai ragazzini così fragili, agli uomini, al popolo del mare che sta navigando verso di noi, ho pensato ai dispersi, ho pensato alle ferite. E ho pensato al mio paese.
Vorrei vivere in un paese che riesce a sconfiggere dentro di se quelle intolleranze che nascono da decenni di precarietà sociale.
Vorrei vivere in un paese dove la gente riesca a trovare quelle energie materiali, mentali, quei legami sociali capace di sconfiggere quelle false paure che nella sostanza sono una espressione di incapacità di riconoscere nell’altro un essere umano.
Vorrei vivere in Italia senza arrabbiarmi per il razzismo, la xenofobia.
Vorrei vivere in una Italia in cui non viviamo la percezione, quella percezione odiosa di essere in guerra gli uni contro gli altri.
Vorrei poter vivere in una Italia in cui bisogna soltanto avere tanta buona volontà per lavorare e non strisciare per sopravvivere.
Vorrei, da gay dichiarato, prima che iniziasse il ventennio che ci ha portato dove stiamo ora, un paese dove i ragazzini non si debbano difendere dal bullismo di altri ragazzini.
Vorrei un paese dove donne e uomini – che stanno portando avanti nella loro vita non solo un processo di quotidiana felicità ma una scelta di visibilità specificandosi come gay, lesbiche, bisessuali, transgender, intersessuali -possano camminare senza sentirsi addosso quella fobia che resta invisibile nei nostri tessuti urbani, mentali, sociali e che può canalizzarsi in violenze specifiche verso qualcuno in particolare.
Ma bisogna lottare insieme, da soli resteremo intrappolati nelle trappole in cui siamo rimasti imbrigliati, trappole che sono non solo sociali, ma mentali, endemiche ai nostri corpi e alla nostra storia.
Fabio D’Urso
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