Il primo a notare la grandezza espressiva di quel manipolo di attori siciliani dalla fortissima carica espressiva fu Nino Martoglio, che fra l’Ottocento e il Novecento stava ponendo le basi per creare una grande compagnia che avrebbe rappresentato il suo repertorio di commedie e quello dei grandi autori siciliani del momento, varcando i confini della Sicilia.
Siamo in un momento in cui il naturalismo francese contamina la nostra letteratura e dà vita ad una corrente letteraria del tutto nuova, il verismo, i cui esponenti principali, in Italia, sono i siciliani Giovanni Verga e Luigi Capuana che raccontano in modo “fotografico” le storie dei vinti – storie di ingiustizie, di sfruttamento, ma anche di grandi amori tormentati che si concludono sempre con la tragedia – storie che si svolgono in questi antichi e remoti paesi della Sicilia, che appassionano non solo il pubblico letterario, ma anche quello teatrale.
Se gli esponenti del verismo raccontano le storie dei vinti, Martoglio diversifica il repertorio drammatico di Verga, di Capuana e di molti drammaturghi del tempo (ecco la rivoluzione che opera nel teatro siciliano) proponendo delle opere sì di stampo verista, ma in chiave brillante. Una storia d’amore – tranne eccezioni – è sempre un inno alla gioia, alla vita, all’allegria, ed è tratteggiata con tinte ironiche e con comicità sanguigna.
Un problema però, Martoglio, deve affrontare. E non è un problema da niente: la ritrosia femminile di calcare le tavole del palcoscenico in un’epoca in cui la donna che recita viene considerata negativamente.
Ecco quello che il commediografo scrive a un giornalista settentrionale: “Le compagnie teatrali o assegnano le parti femminili agli uomini, o scritturano le canzonettiste di passaggio (soprattutto napoletane) oppure ingaggiano qualche corista del Teatro Massimo Bellini (di recente costruzione), anche loro di passaggio”.
“Il pubblico nota con curiosità – scrive ancora Martoglio – e talvolta anche con meraviglia questa anomalia delle donne che parlano il napoletano in seno alla compagnia siciliana e nella produzione schiettamente siciliana. La ragione del difetto assoluto dell’elemento muliebre indigeno in seno alle compagnie, cercatela nell’indole del nostro popolo, così pieno di pregiudizi, nel carattere delle nostre donne, che sono delle vere e proprie ‘maomettane’, ritrose fino all’esasperazione, piene di sciocchi scrupoli e scarse di educazione e di spirito”.
“Tuttora qui – prosegue Martoglio – una signorina di famiglia borghese che si prestasse a recitare in dialetto, provocherebbe uno scandalo, come se si prostituisse con dei mascalzoni e con della gente volgare”.
Quando tutto sembra pronto per la formazione della Compagnia siciliana voluta da Martoglio (che in quel momento si trova fuori Catania e quindi non ha il controllo della situazione), ecco che il destino cambia il corso della storia.
Come un fulmine a ciel sereno prorompe sulla scena teatrale di tutto il mondo un personaggio di cui – fuori Catania – nessuno ha mai sentito parlare: Giovanni Grasso. Non come puparo, ma addirittura come “il più grande attore tragico della storia del teatro”, secondo la definizione di Lee Strasberg, il fondatore dell’Actor’s Studio di New York. Perché il destino permette al teatro siciliano di entrare nella storia?
È il 26 settembre 1902 quando a Modica, in provincia di Ragusa, si verifica uno dei più grandi disastri naturali della storia d’Italia: centodieci morti nella sola cittadina causati da un’alluvione che in una notte inghiotte uomini, animali, case, chiese, strade, muri, alberi, raccolti e lascia una popolazione nella disperazione.
L’Italia si mobilita. Un gruppo di studenti universitari riesce a coinvolgere alcuni politici siciliani che sono in Parlamento. Pare che per Modica si attivi il parlamentare palermitano Vittorio Emanuele Orlando, più tardi ministro nel governo di Giolitti e Zanardelli. Per i poveri alluvionati siciliani si devono raccogliere soldi: una recita di beneficenza all’Argentina di Roma potrebbe aiutare la causa. Secondo il nipote di Grasso (omonimo del grande attore) potrebbe essersi attivato anche il marchese Antonino Di Sangiuliano, in ottimi rapporti coi pupari per via di quegli scantinati che da molti anni mette a disposizione per il teatrino Machiavelli.
Si narra che è Orlando in persona ad avanzare la proposta a Grasso . Lusingato da cotanta richiesta, Giovanni risponde: “Eccellenza, perché i pupi e non noi in carne e ossa?”. “Voi? E cosa siete capaci di fare?”. “Abbiamo la Cavalleria rusticana tradotta in dialetto siciliano”. E sia! Cavalleria rusticana di Verga al Teatro Argentina di Roma. Da non credere!
Per il debutto pare che lo stesso Grasso – per dare alla scena un impianto di marca verista – si rechi fino a Vizzini per acquistare un carretto siciliano rispondente alla descrizione di Verga. Questo è ciò che racconta a chi scrive un altro grande attore, Michele Abruzzo, allievo di Grasso, erede di Musco e fondatore del Teatro Stabile di Catania assieme a Turi Ferro e Umberto Spadaro.
Per questo appuntamento importante, Grasso non può permettersi di portare sulle scene uomini vestiti da donne o canzonettiste napoletane. A Roma, Giovanni, riesce a coinvolgere delle attrici catanesi di altissimo livello che forgiatesi al Teatro Machiavelli grazie alla presenza delle loro famiglie che calcano le tavole del palcoscenico da sempre. Attrici che in futuro si imporranno per la loro eccezionale bravura: la “bolognese” Marinella Bragaglia, che parla il catanese meglio di una donna della Civita; Rosalia Spadaro, Giovannina Carrara, Giovannina e Vittoria Bragaglia, Argia e Lidia Zacconi. A queste, tempo dopo, si aggiungeranno altre grandi attrici come Virginia Balistrieri, Mimì Aguglia e Rosina Anselmi.
Per comprendere la cifra artistica di quel manipolo di scapigliati, basta dire che quella sera del 30 novembre 1902, a Roma, fa il suo esordio come attore comico un “certo” Angelo Musco.
Immaginate la scena della vigilia: quei giovani che si danno convegno al porto di Catania per intraprendere un’avventura di cui sconoscono la portata. Si presentano sulla banchina con quei pochi vestiti laceri e le trusce sulle spalle.
L’indomani mattina si presentano all’ingresso secondario del teatro Argentina, bussano e l’inserviente quando li vede viene attraversato da un fremito di paura e punta loro la scopa: “E voi chi siete? Cosa volete? Da dove venite?”. “Siamo gli attori della Compagnia siciliana, stasera dobbiamo debuttare”, balbetta Grasso. “Santi del paradiso. E chi immaginava di vedervi conciati in questo modo?”
Quella sera un pubblico sparutissimo è presente in sala per assistere alla Cavalleria seguita da I mafiusi di Gaspare Mosca. La compagnia presagisce il rientro anticipato per mancanza di pubblico. Ma il destino, almeno quella volta, è provvidenziale con la Sicilia.
In sala è presente il giornalista Stanis Manca del quotidiano La tribuna, che rimane strabiliato da quegli attori infiammano il cuore di quelle poche persone presenti: “Chi sono? Da dove sono venuti? Come si sono rivelati artisti tanto vigorosi ed originali?”, scrive Manca. E Grasso? “Si affida unicamente alla natura”, è un attore che sembra “uscito dalle viscere della terra”.
In poche ore la voce corre nelle redazioni, nei salotti letterari, nei teatri della capitale ed oltre. La sera successiva centinaia di persone sono curiose di assistere alla recitazione dei “figli della terra” che riproducono in modo mirabile la Sicilia verista e dei cantastorie, dei pupari e delle mascarate e degli aedi della Magna Grecia, una civiltà racchiusa nelle voci, nei gesti, nelle parole di quegli attori analfabeti arrivati dalla lontana Trinacria.
La Compagnia di Grasso replica gli spettacoli per diversi giorni. Martoglio non la prende bene. Resta lusingato del successo dei suoi attori (che, come dice nel suo carteggio epistolare, considera delle sue “creature”), ma comprende fin da allora che tenere sotto controllo quei fortissimi temperamenti artistici è difficile. Ma il belpassese non si scoraggia. Quando la formazione di Grasso torna a Catania, organizza la Compagnia teatrale del Mediterraneo che sogna da sempre, con lui capocomico, Grasso e Musco mattatori: il primo del repertorio drammatico, l’altro di quello comico. Il debutto della nuova compagnia avviene il 16 aprile 1903 al Teatro Alfieri di Milano.
Ma ormai sia Grasso che Musco hanno acquisito la consapevolezza di poter costruire autonomamente una propria Compagnia e mietere successi dappertutto. Per alcuni anni la Compagnia del Mediterraneo resiste, poi ognuno prende strade diverse. Resta tuttavia il sodalizio Musco-Martoglio, ma non sempre con la stessa formazione: il commediografo cuce su misura le opere per Musco, da San Giovanni decollato all’Aria del Continente, da Annata ricca massaru cuntentu a L’altalena.
Intanto i giornali stranieri dedicano pagine entusiasmanti al “figlio della terra”, il quale, grazie anche alle geniali intuizioni di Martoglio muove i primi passi nel cinema muto girando diversi film (da Capitan Blanco a Sperduti nel buio) che rappresentano un altissimo esempio di avanguardia mentre in America si affermano Charlie Chaplin e Buster Keaton. Dei veri capolavori di cinema realista, diretti e prodotti da Martoglio, che purtroppo – come accade a moltissimi capolavori dell’arte italiana – vengono razziati dall’esercito nazista durante la Seconda guerra mondiale.
Luciano Mirone
2^ puntata. Continua
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