“Quando il marchese Antonino di Sangiuliano (senatore del Regno d’Italia e futuro ministro degli Esteri) concede il Machiavelli ai Grasso, fra la grande aristocrazia catanese e il teatro dell’arte si instaura un connubio straordinario che dura parecchi decenni. Mio nonno Giovanni non aveva titoli di studio, ma era acculturato, studiava gli autori del suo repertorio, Verga, Capuana, D’Annunzio (per citarne alcuni), li approfondiva, li confrontava con Omero, con Tasso, con Shakespeare e li interiorizzava: per questo riusciva ad interloquire efficacemente con tutti, sia in Italia che all’estero”.
Un legame, quello fra i Grasso e il marchese di Sangiuliano, cominciato negli ultimi decenni dell’Ottocento – grazie alla concessione degli scantinati del palazzo di Sangiuliano, che i Grasso adibirono a teatro (il Machiavelli) destinato all’opera dei pupi prima e al varietà successivamente – e durato fino alla morte del grande attore catanese (1930).
Un rapporto inscindibile, che testimonia come quel teatro fosse in grado di accomunare nobili e popolani, ricchi e poveri, colti e analfabeti. Basta vedere le foto e i giornali del tempo per comprendere l’ospitalità concessa all’“attore tragico più grande del mondo” e alla sua compagnia nelle corti, nelle ambasciate, nei palazzi nobiliari d’Europa e d’America durante le tournée teatrali.
Una cosa inimmaginabile. Che oggi, in occasione del 115° anniversario della nascita ufficiale del teatro siciliano avvenuta al Teatro Argentina di Roma (30 novembre 1902), ricordiamo in quattro puntate (le ultime due dedicate all’intervista con l’omonimo nipote del grande attore catanese).
“Per molti anni – dice Giovanni – si è detto che il debutto romano fosse stato favorito da Vittorio Emanuele Orlando, ministro del governo dell’epoca. Io sostengo una tesi diversa: ritengo che in quell’occasione fosse intervenuto direttamente il marchese Antonino di Sangiuliano, estimatore di quel manipolo di attori che recitavano sotto la guida del belpassese Nino Martoglio, altro grande protagonista di quella fantastica epopea: secondo me è Martoglio – che fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento sente l’esigenza di confrontarsi col grande teatro italiano della Duse, di Ernesto Rossi e di Ermete Zacconi – a fare pressioni sulla politica per uscire fuori dagli angusti confini catanesi”.
Martoglio non era un tizio comune. Commediografo, poeta, regista teatrale (più tardi anche cinematografico con capolavori come Sperduti nel buio, cui si sarebbero ispirati i fondatori del neorealismo come Visconti, Rossellini, Blasetti e De Sica), era anche un rinomato giornalista. Il suo giornale satirico D’Artagnan era diffusissimo a Catania. Dunque Martoglio ebbe un ruolo di primissimo piano per l’affermazione del teatro siciliano in Italia e all’estero, e sarebbe stato – secondo il nipote di Grasso – il trait d’union fra la politica e la compagnia che operava al Machiavelli.
L’occasione del debutto nella capitale – come abbiamo visto precedentemente – si presentò grazie a una recita di beneficenza per i cittadini di Modica (Ragusa) che il 26 settembre dello stesso anno erano stati colpiti da una delle più disastrose alluvioni della storia d’Italia: centodieci morti e un numero altissimo di feriti.
“Avrebbero potuto chiamare altri”, dice Giovanni. “Invece ingaggiarono quella compagnia, per giunta di Catania”. Perché? “Una cosa è certa: non fu mio nonno a sollecitare questa occasione. Qualcuno organizzò la tournée romana per raccogliere fondi e si portò il gioiello più prezioso che c’era a Catania: il Teatro Machiavelli”.
“Il marchese di Sangiuliano – seguita Grasso – frequentava il Machiavelli, conosceva perfettamente l’evoluzione di quel gruppo di scapigliati fra cui, oltre a mio nonno, spiccavano Angelo Musco, Totò Majorana, Salvatore Lo Turco, Pietro Sapuppo e le grandi famiglie di teatranti che lo frequentavano, i Bragaglia, i Carrara, i Campagna, gli Spadaro, gli Aguglia. E avrà garantito per loro. Non ho le prove, ma diversi indizi mi portano a ritenerlo”.
Dopo la morte di don Angelo Grasso, padre di Giovanni, avvenuta nel 1888, al Machiavelli pupi e varietà si alternavano. “Inizialmente Musco fece l’attore drammatico, Grasso il comico, poi capirono che dovevano invertire i ruoli e andò come sappiamo”, spiega Giovanni.
Quel teatrino non fu più il ritrovo esclusivo del ceto popolare attratto irresistibilmente dai pupi, ma diventò il punto di riferimento di molti studenti universitari e di professionisti. “Lo stesso marchese di Sangiuliano – seguita il nipote dell’attore – andava a vedere le cantanti: entrava da un ingresso che collegava la sua abitazione col teatro. Fu al Machiavelli che quasi tutti gli attori si conobbero e si sposarono. Anche mio nonno conobbe mia nonna nel locale di via Ogninella, dove era stata scritturata: si chiamava Concetta Carducci, era una canzonettista napoletana. Ebbero quattro figli: zia Ciccina e zia Marietta (che morì a trent’anni), Angelo e infine Carlo (mio padre), il cui nome è ispirato a Carlo Magno”. A Carlo Magno? “Certo. La nostra famiglia viene dai pupi? Dunque bisognava chiamarlo Carlo”. Già, la famiglia. Giovanni ci credeva molto: “Basta immaginare – dice il nipote – che i soldi guadagnati, li mandava sempre a sua madre, a donna Ciccia. Era lei l’amministratrice della famiglia”.
“Il Machiavelli della seconda fase, come scrive De Felice, fu un formidabile punto di ritrovo per il ceto medio-alto: ci trovavi la cantante, la novità, Angelo Musco che faceva ridere, Grasso che recitava i drammi solo di voce”.
Di voce? “Nel teatro dell’epoca esisteva solo la voce. Quando chiesero al grande Ernesto Rossi qual era la migliore qualità per un attore, egli rispose: ‘La voce, la voce, la voce’. Non c’è ancora il teatro isodinamico. La voce di mio nonno era possente, si prestava a diverse modulazioni, ‘u cuntaturi (il raccontatore dell’opera dei pupi) era unico: dall’età di nove anni faceva la voce da uomo, da donna, da vecchio e da bambino. Gradualmente però – seguita Giovanni – egli rivoluziona il modo di recitare attraverso l’immedesimazione, una tecnica che prima di lui non esisteva”.
Se qualcuno ha dei dubbi è pregato di leggere i testi teatrali che parlano dell’argomento o magari di fare una ricerca su internet inserendo due parole-chiave: Stanislavskij e Strasberg. Leggerà che gli “inventori” del teatro moderno si sono ispirati alla tecnica di Giovanni Grasso.
“L’immedesimazione – prosegue il nipote dell’attore – è ciò che Grasso sperimentò in Sicilia senza alcuno studio scientifico. Abituato a un teatro statico o di posa (parliamo del teatro drammatico), il pubblico impazzì quando vide Grasso che si muoveva, roteava gli occhi, ammazzava qualcuno attraversando in un lampo tutto il palcoscenico. È il teatro verista a dargli questa possibilità, un teatro popolare, reale, sanguigno. Se vai al mercato del pesce o alla fiera di Catania, vedi i ragazzi di otto anni che declamano con la voce dei grandi e si immedesimano in un ruolo che non è il loro. Questo li rende universali”.
Il verismo dunque è la corrente letteraria che dà a Grasso la possibilità di esprimere le sue straordinarie capacità espressive mediante l’immedesimazione o la reviviscenza. “Non dimentichiamo – spiega Giovanni – che siamo nel periodo dell’Esposizione di Parigi del 1889, quando il padiglione più visitato è quello esotico. È un momento in cui l’intellighenzia guarda ai Paesi caldi come nuove fonti di ispirazioni: Gauguin va in Polinesia per cercare nuovi colori, Puccini respira le sonorità orientali sperimentate precedentemente da Ravel. A un certo punto esce fuori la Sicilia. Che offre tonalità, sensazioni e storie che colpiscono gli intellettuali di tutto il mondo”.
Una Sicilia che i veristi descrivono a tinte fosche. “Fu questo il limite maggiore del teatro di allora: Martoglio voleva uscirne, ma ci riuscì relativamente”. In che senso? “Nino era convinto del valore dei suoi attori, ma pensava che i tempi non fossero maturi per andare oltre Stretto. Il suo piano era quello di amalgamare meglio la compagnia e di arricchire il repertorio con opere che andassero oltre il verismo di Verga e Capuana, immettendo lavori diversi”.
Il 1902 fu fatale. Grasso esordì a Roma e capì di potere operare autonomamente. Martoglio riprese in mano le redini della situazione e riuscì a realizzare il sogno della Compagnia del Mediterraneo, ma Grasso e Musco successivamente sarebbero andati per conto proprio, anche se avrebbero continuato a collaborare fattivamente con Martoglio sia in teatro (Musco con le numerose commedie che il Belpassese scriveva per lui) sia al cinema (Grasso con i primi film del muto, di cui il fondatore del D’Artagnan fu regista molto apprezzato).
Una volta alla domanda, “possiamo considerare datato il teatro di Grasso”, l’attore Michele Abruzzo – erede di Angelo Musco e fondatore assieme a Turi Ferro, Umberto Spadaro e Rosina Anselmi del Teatro Stabile di Catania – rispose così: “Giovanni era talmente grande che – se fosse vissuto oggi – si sarebbe adattato alle esigenze del teatro moderno”. “Basta osservare – ribatte il nipote – le poche immagini del film Dopo il peccato per vedere un attore maturo, stabile, con un occhio che ha una espressione rilassata. Il vero verismo è questo, non quello di compare Alfio che morde l’orecchio a compare Turiddu. Quando mio nonno va in tournée a Londra, vuole confrontarsi col teatro internazionale e gli fanno fare l’Otello, con risultati straordinari. Martoglio aveva ragione”.
Luciano Mirone
4^ Puntata. Fine
Testimonianza di cultura eccezionale che dimostra, se ce ne fosse bisogno, l’elevato carisma vel nostro teatro e dei suoi principali fautori.