Un lago bellissimo. Nel quale si specchiano placidamente le montagne imponenti che lo circondano, con gli abeti, il cielo, le nuvole e la neve che infondono sensazioni di pace e di armonia. È il Braies, in Val Pusteria, uno dei laghi più suggestivi delle Dolomiti.
A un certo punto, a catturare la tua attenzione, è un’immagine legata indissolubilmente al lago: un grande albergo col tetto spiovente e la facciata in pietra grigia che si riflette nell’acqua. Una visione che ti incuriosisce senza sapere come e perché. Quando scopri che quell’hotel esiste da centoventiquattro anni la curiosità aumenta, al punto da mettere in moto la tua fantasia. Chissà… forse l’immaginazione delle antiche famiglie dell’aristocrazia mitteleuropea presenti in questo luogo sospeso fra il cielo e il lago, o la sensazione – dovuta magari a qualche fotogramma in bianco e nero visto in tivù – di trovarti in un posto segnato dalla storia, fatto sta che di questo albergo che scorgi da lontano vuoi scoprire il mistero.
Entri e spieghi il motivo della visita. Ti accoglie il direttore. I locali sono rivestiti in legno e conservano lo stile inconfondibile del Tirolo, con l’attraente soggiorno che mostra l’ampia vetrata che si affaccia sulle montagne innevate.
L’ingresso dell’albergo (foto Giuseppe Ferlito e Giuseppe Mirone)
Alle pareti sono appese le foto dei fondatori, gli Hellenstainer , pionieri del turismo in Alto Adige, creatori di altri impianti ricettivi a Merano, a Bressanone e in diverse altre località delle Dolomiti.
Ma quel che colpiscono sono le immagini scattate durante la Seconda guerra mondiale, quando l’esercito nazista batteva in lungo e in largo questo luogo strategico delle Alpi, al confine con l’Austria e a un passo dalla Germania (non a caso qui la lingua principale è il tedesco, la seconda l’italiano) per preparare una reazione adeguata alle incursioni degli anglo americani.
Osservando quelle immagini acquisisci la consapevolezza di trovarti in un posto unico. Perché qui, nella primavera del 1945, accadde un fatto straordinario.
Sbirciamo fra gli appunti, le foto, i libri e le brochure e scopriamo che quest’albergo costruito nel 1893 sulle rive del lago di Braies, fra l’aprile e il maggio del 1945, ospitò centotrentanove prigionieri di diciassette Paesi europei provenienti dai campi di concentramento nazisti riuniti infine a Dachau.
Detenuti arrivati fin qui dopo una lunga e terribile peregrinazione attraverso il Vecchio continente sconvolto dalla guerra e scortati dalle SS affinché – secondo un piano segreto, poi fallito, ma in quel momento attuale – venissero utilizzati da Hitler come merce di scambio per trattare con gli alleati, per prendere tempo in attesa delle “miracolose armi segrete” (le Wunderwaffen), mai arrivate, con cui i tedeschi pensavano di annientare i nemici.
In realtà il nazismo (ormai agonizzante) credeva di poter organizzare l’ultima resistenza su questa roccaforte alpina nella quale, negli anni precedenti, erano stati approntati rifugi e fortificazioni militari. Fu un’illusione. Gli anglo americani avevano sfondato le difese dell’Asse e si apprestavano a liberare l’Europa.
Quei centotrentanove prigionieri non erano ebrei rastrellati qua e là, ma personalità di altissimo rango – statisti, diplomatici, ufficiali, aristocratici – provenienti dai Paesi occupati e divisi in due categorie: gli Ehrenhaeftlinge (i prigionieri d’onore) e i Sippenhaftlinge (i parenti degli oppositori al nazismo). Fra questi figurano i familiari del colonnello di Stato maggiore, il conte Claus Schenk von Stauffenberg che il 20 luglio 1944 architettò l’attentato (non riuscito) al Fuhrer: “Dobbiamo dimostrare al mondo che non eravamo tutti come lui”. L’ufficiale fu giustiziato il giorno dopo su ordine di Hitler, assieme agli altri cospiratori.
Gli altri prigionieri erano, fra gli altri, il cancelliere austriaco Kurt von Schuschnigg assieme alla moglie e alla figlia; il borgomastro di Lipsia Carl Goerdeler; il principe Filippo D’Assia; l’industriale Fritz von Thyssen con la moglie Amelia. E poi baroni, generali, ministri, proprietari terrieri, giornalisti, professori universitari, ingegneri navali.
Il numero più alto di prigionieri proviene dalla Germania, soprattutto dalla classe nobiliare. Poi c’è la Gran Bretagna, la Danimarca, la Francia, la Grecia, la Lettonia, l’Olanda, la Norvegia, l’Austria, la Polonia, la Russia, la Serbia, la Svezia, la Slovacchia, la Repubblica ceca, l’Ungheria. Dei centotrentanove prigionieri – recita il libro di Hans Guenther Richardi, Ostaggi delle SS al lago di Braies, a cura del Centro studi Lago di Braies, conservato gelosamente in albergo – “facevano parte un cuoco e un parrucchiere detenuti a Dachau e messi al servizio dei personaggi d’alto rango”.
Dell’Italia figurano cinque detenuti: il più illustre è Mario Badoglio, figlio del maresciallo fascista Pietro Badoglio, e poi Tullio Tamburini ed Eugenio Apollonio, rispettivamente capo e vice capo della polizia nella Repubblica di Salò; quindi il generale Sante Garibaldi e il tenente colonnello Davide Ferrero.
È un grand hotel situato a 1496 metri sul livello del mare, nel comune di Braies, in provincia di Bolzano. Nella metà dell’Ottocento fu il capostipite della famiglia Hellenstainer, Joseph, marito della mitica albergatrice tirolese Frau Emma, ad intuire le grandi potenzialità turistiche del Braies: all’inizio gestì il servizio delle carrozze destinato ai turisti, ma poi comprese che per rivoluzionare l’economia della zona bisognava pensare in grande. E cosa fece? Acquistò il lago. Portando avanti delle attività connesse alle risorse dell’acqua: la vendita di ghiaccio per le fabbriche di birra, il commercio del pesce, l’affitto delle barche.
La seconda rivoluzione fu avviata diversi anni dopo dal primogenito Eduard. È il 1893 quando il giovane Hellenstainer ultimò il piccolo albergo sulle rive del lago – un sogno coltivato dalla madre – ampliato sei anni dopo grazie al progetto dell’architetto viennese Otto Schmid. “L’inaugurazione del 10 luglio 1899 fu un momento di gioia e di orgoglio per la famiglia”, scrive Hans Heiss, discendente dei fondatori. “L’hotel di 70 stanze, dotato di illuminazione elettrica e di saloni per eventi mondani offriva un comfort di tutto rispetto”. Nel 1903 fu ampliato con l’aggiunta di trentacinque camere, nel 1907 arrivò a centodieci per centosessanta posti letto.
Fu un successo con il “tutto esaurito” che si registrava soprattutto in estate: millenovecentotré clienti fra il 1902 e il 1903, una media di ventimila pernottamenti, un soggiorno di dieci giorni per ogni ospite.
Fra i personaggi illustri dell’epoca il successore al trono austriaco Francesco Ferdinando con la famiglia e il seguito (1910), l’arciduca Franz Salvator (1908) e l’arciduchessa Valerie (1906).
Una dinastia, quella degli Hellenstainer, che da queste parti viene ricordata con affetto per la grande capacità di “inventarsi” il turismo d’elite, che nel frattempo stava esplodendo in tutta Europa.
Con la costruzione di questo hotel incastonato nelle Dolomiti, Eduard seppe interpretare il cambiamento dei tempi.
Ma è in quei fatidici giorni del ‘45, quando la guerra è ormai alla fine, che l’albergo entra nella leggenda: i centotrentanove prigionieri (portati in un primo momento a Villabassa, un paese vicino) vengono smistati dai soldati delle forze armate tedesche della Wehrmacht – che entrano in conflitto con le SS – in questa struttura sulle rive del lago di Braies, dove pochi giorni dopo riacquistano la libertà grazie alle truppe americane.
A prendersi cura di loro è la proprietaria, la signora Emma Heiss Hellenstainer (figlia del vecchio Eduard, fondatore dell’albergo) che in quel momento si trova fuori sede. Con grande umanità la donna ospita i detenuti e li accudisce dal 30 aprile al 4 maggio.
Scrive la nipote Hans Heiss: “Fu naturale per lei mettersi in viaggio alla fine di aprile del 1945 per assistere i prigionieri speciali e i Sippenhaftlinge… Nostra nonna disprezzava il regime di Hitler e i nazisti… i dittatori la ripugnavano profondamente, aveva un fine intuito per captare le falsità, aborriva la violenza e desiderava che gli esseri umani fossero trattati bene”.
Emma apprende storie struggenti e sconvolgenti, come quella di Fey von Hassel, figlia dell’ambasciatore tedesco Ulrich von Hassel: le SS l’avevano privata dei suoi due bambini, deportandola in un campo di concentramento e aggregandola al convoglio dei prigionieri eccellenti. Dopo la donna riuscirà a incontrare di nuovo i suoi figli, ma in quei giorni del ’45 è ben lontana da loro e non sa se li rivedrà.
Il I maggio del ’45 Fey si trova assieme agli altri detenuti nella chiesetta realizzata in riva al lago, consacrata nel 1904 e intitolata alla Madonna Addolorata, per la messa di ringraziamento celebrata dal prelato Neuhausler, anche lui detenuto a Dachau. È il primo giorno di libertà, ma la donna non pensa ad altro che ai suoi figli: “Questa chiesetta di montagna così lontana dal mondo era proprio il posto giusto per una messa di ringraziamento, che tutti noi abbiamo vissuto nel profondo del cuore”.
In quei giorni Fey racconta la sua incredibile odissea, ed Emma la osserva con gli occhi sgranati dalla commozione. In un momento di intimità, Fay scrive: “In quei primi giorni di libertà, Braies ci sembrò un paradiso in terra. Bello come un sogno. Non riuscivo a staccare lo sguardo dalla mia finestra, dalle montagne coperte di neve che si ergevano a picco sul quieto lago triste e misterioso”.
Luciano Mirone
Complimenti !
Grazie a Lucian Mirone per questo toccante contributo .