Se volete capire cos’è la perversione dell’essere umano dovete recarvi al Museo ebraico di Praga. Qui dal 1939 alla fine della Seconda guerra mondiale, Hitler – in preda al suo delirante disegno di eliminazione della razza ebraica – diede ordine agli ufficiali del Terzo Reich di raccogliere migliaia di oggetti, suppellettili, monili, opere d’arte, addobbi sacri della cultura ebraica per istituire il Museo della razza estinta, un “luogo della memoria” ricavato all’interno del ghetto, per offrire alle generazioni future il ricordo di un popolo cancellato dalla faccia della terra da lui stesso.
Mentre l’Europa era in fiamme e l’esercito più sanguinario della storia conquistava l’Europa, quell’edificio museale inserito nell’antica sinagoga, a due passi dall’abitazione di Kafka, era il segno tangibile di un regime che usava i destinatari della “soluzione finale” come cavie con un messaggio da fare rabbrividire i posteri: in un’epoca lontana, quella razza inferiore è esistita veramente e adesso, grazie al nazismo che l’ha debellata, ne potete ammirare le peculiarità, come in un museo di scienze naturali dove è possibile osservare i dinosauri di duecento milioni di anni fa, con la differenza che in questo caso solo la natura ha provveduto all’estinzione, mentre nel caso degli ebrei, l’uomo ha preso le sembianze di un mostruoso dottor Stranamore che avrebbe voluto sostituire Dio.
Ecco allora che anche i bellissimi disegni dei bambini rinchiusi nel campo di concentramento di Theresienstadt (una località a sessanta chilometri dalla capitale Ceca) diventano i simboli di una storia rovesciata, i reperti di un passato cancellato e mantenuto vivo grazie ai vincitori. Paginette deliziose in cui vengono proiettate le immagini della quotidianità di allora: la mamma, la zia, il treno, il volto di un fanciullo attorniato dai fiori e dal filo spinato, l’edificio che raccoglie i deportati del ghetto.
“I tedeschi – si legge nel settimanale praghese “Tyden” – fecero trasportare a Praga tutti i manufatti e gli oggetti artistici dalle comunità ebraiche cecoslovacche distrutte nel corso dell’occupazione, insieme con le proprietà degli ebrei deportati”. Nel 1939 gli oggetti esposti nel museo erano 900, nel ’45 oltre 213 mila.
Ma alla fine, malgrado lo sterminio di sei milioni di ebrei, quel popolo è sopravvissuto, e quel museo, posto nel cuore del quartiere ebraico (oggi invaso dai negozi di lusso), resta uno dei simboli più significativi di quella cultura in tutto il mondo.
Se volete conoscere una città che ha conosciuto i fasti dell’impero austro ungarico, le tragedie del nazismo e per oltre mezzo secolo è stata sotto il giogo della dittatura sovietica, dovete venire a Praga, crocevia di una cultura mitteleuropea molto raffinata.
L’incubo del comunismo sovietico
Qui, dopo l’invasione dell’esercito hitleriano, per altri quarantacinque anni si è vissuto l’incubo del comunismo sovietico, che ha portato altra povertà, altre censure, altre repressioni.
La percentuale di spie comuniste disseminate in città fino al crollo del Muro di Berlino (1989), ti spiegano, era impressionante: una ogni cinquanta abitanti. Persone apparentemente normali si mimetizzavano nella folla, origliavamo e rapportavano, con conseguenze devastanti per chi osava pronunciare parole contrarie al regime.
Poi tutto sembrò cambiare. Ma durò pochi mesi. Un “fresco profumo di libertà” bello, esaltante, emozionante. Si chiamava Primavera di Praga. Era il gennaio 1968, Alaxander Dubcek, appoggiato da un gruppo di intellettuali, divenne segretario del Partito comunista cecoslovacco, riaprì i giornali, ripristinò la libertà di parola, parlò di comunismo dal volto umano. Non poteva durare. E non durò. Mosca reagì duramente. La primavera durò fino ad agosto, poi fu repressa. Dubcek fu rimosso, il tentativo di normalizzazione riuscì.
La libertà di Jan Palach
Se volete capire che vuol dire lottare per gli ideali di libertà, dovete conoscere la storia di un giovane praghese che ricorda i monaci buddisti arsi vivi durante la guerra in Vietnam.
Dopo la destituzione di Dubcek, qualcosa nel frattempo covava sotto la cenere ed esplose in tutta la sua dirompenza nella facoltà di filosofia propagandosi in tutto il mondo, ma non cambiando gli equilibri geopolitici del Patto di Varsavia e del Patto Atlantico.
16 gennaio 1969. Un giovane universitario si cosparse di benzina e si diede fuoco. Quel tardo pomeriggio, il sole al tramonto tingeva di arancione il fiume Moldava, dove le migliaia di cigni, di gabbiani e di anatre si preparavano per la notte, dopo una giornata di freddo polare.
Il ragazzo si chiamava Jan Palach, aveva poco più di vent’anni, con quel gesto volle scuotere l’attenzione del suo popolo e suscitare sdegno presso l’opinione pubblica mondiale. L’indignazione ci fu, ma restò tale, il regime sarebbe durato altri vent’anni.
Tutto accadde in pochi minuti sul selciato, davanti al museo nazionale che sovrasta l’immensa piazza Venceslao, al cospetto di un tranviere che passava per caso e che sarebbe accorso per dare aiuto al giovane, poi ricoverato in ospedale tra la vita e la morte per tre giorni, con ustioni di terzo grado nell’ottantacinque per cento del corpo. Mentre stava consumando il suo gesto, il ragazzo ebbe il tempo di gridare al tranviere: “La lettera, salvi la lettera”. La lettera era stata scritta di suo pugno su un foglietto a righe ed era conservata nello zainetto a tracolla che lui portava sempre con sé: “Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione – c’era scritto – abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero uno, è mio diritto scrivere la prima lettera e di essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l’abolizione della censura e la proibizione di Zpravy (il giornale delle forze di occupazione sovietiche). Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale illimitato, una nuova torcia si infiammerà”. Firmato: “La torcia n 1”.
Il sacrificio di Jan fu seguito da altre sei torce, studenti di filosofia che, come lui, vedevano nella Primavera il momento per uscire fuori dal ghetto delle repressioni, ma non accadde nulla anche in quel caso.
“Quello di Palach non fu un suicidio per disperazione – scrisse Bernardo Valli su “Repubblica” – non era una resa definitiva, portata alle estreme conseguenze: era un’azione offensiva. Insomma era il gesto di un soldato che si sacrifica per gli altri esortandoli a battersi. Non fu neppure una sbagliata rinuncia a quel dono di Dio che è la vita, riconobbe il Vaticano. Un suicida in certi casi non scende all’inferno”.
Da allora sono passati quarantanove anni. Il comunismo sovietico è stato spazzato via da un altro grande della storia di questo Paese: Vaclev Havel, il primo presidente della Repubblica Ceca dopo la fine del comunismo. In anni difficili, quando era complesso uscire fuori dal sistema sovietico, il nuovo leader – un artista prestato alla politica – seppe coniugare la politica con la cultura, il solo modo per uscire con il sorriso da una situazione tristissima. Una coltre di nebbia quasi diradata ma ancora visibile, specie se ti rechi nelle periferie anonime costruite dal regime. La povertà è un ricordo, anche se il tenore di vita non è lo stesso dei Paesi occidentali economicamente più evoluti (100 corone valgono 3 euro e 70 centesimi; uno stipendio medio si aggira sui 900 euro). E però, ti dicono, la povertà ha formato intere generazioni che ancora oggi riescono ad essere sobrie, umili e solidali. Insomma, bella gente, e soprattutto colta, in una città con forti tradizioni di massoneria.
Centinaia di persone in questo momento affollano la metropolitana, il quartiere antico e regale di Malastrana, piazza dell’Orologio e piazza Venceslao, mischiandosi con le migliaia di turisti che alla vigilia del Natale si recano in questa città per ammirarne le bellezze e assaporare le sensazioni che questa capitale ricca di fascino ha trasmesso nel corso dei secoli a musicisti, pittori, poeti e scrittori. I cigni, i gabbiani e le anatre sono sempre lì, scivolano nella Moldava, incuranti della storia, bella o brutta, dell’uomo. La storia scorre. Come il fiume che passa placidamente sotto questo bellissimo Ponte Carlo.
Luciano Mirone
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