In principio fu il boato. Che si sentì in tutta la Valle, più violento e più sordo di un tuono. Nessuno pensava al terremoto che avrebbe stravolto per sempre questo pezzo di Sicilia fra le province di Trapani, Agrigento e Palermo. Poi – alle 13, 28 del 14 gennaio 1968 – ci fu la prima scossa. Alle 14,15 la seconda, alle 16,48 la terza. Ma il peggio arrivò nella notte, alle 2,33 e alle 3,01 del 15.
Giorni terribili – quelli di cinquant’anni fa – in cui il sisma spazzò via esseri umani, case, chiese, piazze, teatri, strade, stalle di quattordici comuni appollaiati nella Valle del Belice: Gibellina, Salaparuta, Santa Ninfa, Santa Margherita, Partanna, Salemi, Poggioreale, Calatafimi, Menfi, Camporeale, Chiusa Sclafani, Contessa Entellina, Sambuca di Sicilia, Sciacca, alcuni di questi rasi al suolo e ricostruiti altrove, altri salvati e ristrutturati, un altro (Poggioreale) ricostruito a diversi chilometri di distanza, malgrado l’impianto urbanistico rimasto in piedi.
Circa quattrocento le vittime (compresa una decina fra carabinieri, poliziotti e vigili del fuoco accorsi per soccorrere gli abitanti), circa mille i feriti. Su novantamila sfollati, novemila furono ricoverati in edifici pubblici, seimila nelle tendopoli, tremila e duecento in tende sparse in campagna, cinquemila sui treni, diecimila le persone emigrate. Il colpo definitivo fu sferrato dalla scossa del 25 gennaio che rase al suolo molte strutture pericolanti. Un anno terribile.
Basti pensare che da gennaio a settembre i sismografi registrarono trecentoquarantacinque scosse. Basti pensare che nel 1973 i baraccati erano poco più di quarantottomila e tre anni dopo quarantasettemila. Basti pensare che le ultime duecentocinquanta baracche (con i tetti rigorosamente in eternit) sono state smontate nel 2006. Basti pesare al fiume di danaro speso per la ricostruzione (oltre 6 miliardi di Euro). Basti pensare agli appalti di strade, autostrade, superstrade, dighe ed altre opere faraoniche che Cosa nostra si accaparrò. Basti pensare alle decine di morti ammazzati – fra cui il cronista del Giornale di Sicilia, Mario Francese, che indagava sugli scandali del post terremoto – a causa di questo vortice di danaro che ha ingrassato pochi a scapito della collettività. Basti pensare alle battaglie del sociologo Danilo Dolci che lottava per il riscatto degli abitanti di questa terra: “La burocrazia uccide più del terremoto. Qui la gente è stata uccisa nelle fragili case e da chi le ha impedito di riappropriarsi della vita col lavoro”. Parole al vento. Come quelle indignate e profonde di un altro simbolo di queste popolazioni: don Antonio Riboldi, allora giovane sacerdote, scomparso in questi giorni.
Mentre nelle grandi città italiane si celebrava la rivoluzione giovanile del Sessantotto, in questi bellissimi paesi della Sicilia si celebrava lo stravolgimento di un’identità antichissima e risalente addirittura al tempo degli Elimi, il popolo scampato alla distruzione di Troia capeggiato da Enea che, secondo un affascinante intreccio fra storia e leggenda, si rifugiò fra queste dolcissime colline integrandosi con la popolazione.
Ma il vero colpo di grazia fu dato dalla progettazione “piovuta” da Roma: paesi con i dedali di vicoli e di stradine che confluivano nella piazza, la chiesa al centro, il corso principale affollato la domenica di giovani e di anziani vestiti a festa, il teatro, la biblioteca, il circolo dei civili, la pasticceria, le case dei nobili e dei contadini, le basole di pietra, l’abbeveratoio, la macelleria, la bottega del ciabattino e del falegname, completamente ignorati dalle autorità.
Il terremoto arrivò in pieno boom economico, quando si credeva che cemento e progresso fossero la stessa cosa, malgrado le parole profetiche di Pierpaolo Pasolini che parlava della cancellazione di un’identità attraverso lo scempio edilizio e il consumismo. Questi paesi della Valle del Belice – non tutti – sono il paradigma di un sistema perverso nel quale il denaro ha sostituito Dio. E ha distrutto l’equilibrio perfetto fra la Sua anima e l’anima degli uomini che da millenni si fondeva in una sola parola: bellezza.
Basta recarsi in alcuni paesi della Valle per capire quale terribile sciagura – più del terremoto – li ha colpiti. Paesi – anzi, più che paesi, “periferie” – costruiti per il passaggio delle auto e non delle persone, freddi, inospitali, grigi.
Cavie per assurdi esperimenti architettonici e urbanistici che confermano l’idea di una Sicilia trattata più come colonia che come luogo dell’anima. Posti dove, in ogni caso, bisogna andare, perché la bellezza è talmente tanta, talmente traboccante, talmente estesa che l’uomo – per quanto impegno abbia profuso – non riuscirà mai a distruggere. Esistono delle testimonianze antiche, ma anche moderne, che comunque vale la pena vedere.
Luciano Mirone
1^ puntata. Continua
Lascia un commento...