Nel giorno del quattordicesimo anniversario della morte di Attilio Manca, la Procura di Roma chiede di archiviare il caso non considerando le dichiarazione di ben cinque pentiti che sostengono la tesi dell’omicidio di mafia legato all’operazione di cancro alla prostata effettuata a Marsiglia, durante la latitanza, dal boss Bernardo Provenzano, e legittima, seppure indirettamente, la tesi del suicidio per overdose di eroina sostenuta dai magistrati di Viterbo, dove l’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) fu trovato morto il 12 febbraio 2004.
Ci sia consentito dire che si tratta di una richiesta scontata, prevedibile e perfino banale (Antonio Ingroia, uno dei due legali della famiglia Manca, parla di “scandalo”) di cui da tempo si avvertivano i segnali, dato che i magistrati romani Prestipino e Pignatone non hanno mai dato l’impressione di voler affrontare il caso con decisione, come avvenuto in altre occasioni. Gli stessi Pm che quando erano alla Procura di Palermo avevano ben ricostruito le tappe salienti – i complici, i fiancheggiatori, le dinamiche – della trasferta di Provenzano in terra francese, ora ci dicono che non ci sono gli elementi per andare avanti. Rispettiamo la decisione dei magistrati, ma non siamo d’accordo. Di elementi ce ne sono fin troppi, semplicemente sono stati ignorati. Scoprire che Attilio Manca è stato ucciso dalla mafia avrebbe potuto significare legittimare il processo Trattativa, in corso a Palermo col silenzio assordante della grande stampa italiana. La quale – parliamo del Corriere della Sera – si è svegliata addirittura tre giorni fa bruciando tutti e informandoci di questa richiesta di archiviazione.
Diciamolo francamente: l’archiviazione è nell’aria da diversi anni, da quando Prestipino aveva escluso pubblicamente la presenza del dottor Manca dal contesto dell’operazione eseguita a Provenzano, come a voler cristallizzare i fatti che lui stesso aveva accertato in precedenza, come a voler chiudere i conti con la storia, categoria umana sempre in divenire per i particolari che possono affiorare in qualsiasi momento. E fra questi – per usare una metafora archeologica – c’è un reperto emerso dalla coltre di sabbia che col tempo ci ha fornito tante informazioni: che Attilio Manca potrebbe essere stato l’urologo – non sappiamo se presente o meno in sala operatoria a Marsiglia – che in Italia avrebbe diagnosticato il tumore a Provenzano seguendone anche il decorso post operatorio. Del resto, qualcuno può escludere che il boss, come tutti i comuni mortali, sia stato assistito prima e dopo l’operazione da un medico? Qualcuno può escludere che questo medico sia proprio Attilio Manca? No. Per la semplice ragione che dalle inchieste giornalistiche che abbiamo svolto, puntualmente ignorate dagli investigatori, si può dedurre che in giro ci sono delle persone – a parte i pentiti – che possono dare dei chiarimenti in merito. Sono state cercate? Non ci risulta.
In compenso, di particolari che hanno spazzato altra sabbia dal reperto, nel frattempo, ne sono saltati fuori abbastanza, sia leggendo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, sia focalizzando le inchieste giornalistiche che pochissimi cronisti italiani hanno effettuato. Quattro su tutte: 1) l’indagine della trasmissione di Rai3, “Chi l’ha visto?”, che nel gennaio 2014 ha smentito quanto sostenuto dalla Squadra mobile di Viterbo, e cioè che Attilio Manca non si era mosso dal posto di lavoro – l’ospedale Belcolle della città laziale, dove lavorava da meno di due anni – nei giorni in cui Provenzano veniva operato a Marsiglia. Secondo il registro delle presenze consultato dai giornalisti della Sciarelli, si sarebbe verificato esattamente il contrario, ovvero che il medico, proprio in quei giorni, risultava assente dall’ospedale. Il perché non ce lo ha mai detto nessuno, ma qui le cose sono due: o ha detto il falso la Squadra mobile oppure la trasmissione di Rai3. Fatto sta che da allora “Chi l’ha visto” non si è occupata del caso Manca. malgrado una raccolta di circa 30mila firme che ha sollecitato la Sciarelli a parlare ancora di questa storia. Niente da fare. Perché? Non lo sappiamo, ma il quadro è sconvolgente.
In ogni caso andava vagliato attentamente quanto sostenuto dai genitori del dottor Manca: “Nei giorni in cui Provenzano era sotto i ferri a Marsiglia, Attilio ci chiamò dal Sud della Francia per dirci che doveva assistere a un intervento”. La telefonata – secondo il padre, la madre e il fratello dell’urologo – sarebbe sparita dai tabulati. Questo particolare è stato accertato? 2) I libri e gli articoli sulla morte di Attilio Manca, vere e proprie inchieste di “controinformazione” da cui i magistrati romani – a Prestipino abbiamo regalato il nostro volume personalmente – avrebbero potuto attingere a piene mani; 3) l’inchiesta a puntate pubblicata nel 2016 da questo giornale sulla perizia medico-legale eseguita sul cadavere del giovane medico; 4) la recente indagine delle “Iene” su Mediaset, da cui emerge un quadro incredibile sui presunti coinvolgimenti di certi personaggi.
Quattro punti che si integrano sia con le dichiarazioni dei pentiti, soprattutto quelle del collaboratore barcellonese Carmelo D’Amico, sia con le clamorose ritrattazioni degli “amici” barcellonesi della vittima (loro sì ritenuti credibili) appartenenti a un sistema fin troppo inquietante per essere ignorato con disarmante facilità, sia con la contraddittoria audizione (vogliamo usare un eufemismo) in Commissione antimafia dei due magistrati che a Viterbo hanno seguito il caso: l’ex procuratore Alberto Pazienti e l’ex Pm Renzo Petroselli.
Bastava comparare tutti questi elementi, verificarli e approfondirli, per accertare che quella di Attilio Manca è una storia molto più complessa della banale “inoculazione volontaria” di eroina ricostruita senza un briciolo di prova dai magistrati di Viterbo. Sì, una storia che potrebbe lambire il processo Trattativa di cui Bernardo Provenzano – per un certo periodo latitante proprio a Barcellona Pozzo di Gotto – è stato il punto di collegamento. Scoprire questo caso significa squarciare il velo su uno scenario terribile che, secondo il processo Trattativa, coinvolge ex ministri, ex capi dei servizi segreti, ex fondatori di partiti, eccetera eccetera eccetera.
Invece: o si chiede un’archiviazione, come è successo a Roma, oppure si fa quello che hanno fatto a Viterbo: si prende una presunta pusher romana, Monica Mileti, conoscente di Attilio Manca (una conoscenza favorita dagli stessi “amici” barcellonesi: altra “coincidenza” del tutto inesplorata), si imbastisce un processo contro di lei (dopo oltre dieci anni dal fatto), la si accusa di avere fornito l’eroina “fatale” all’urologo e la si condanna senza prove. Con un capolavoro finale che chiude il cerchio: l’estromissione della famiglia della vittima dal processo, che pure aveva chiesto di essere ammessa come parte civile. Motivazione? La morte di Attilio Manca non ha arrecato danni ai familiari. Risultato: il dibattimento non ha visto alcun contraddittorio, solo un monologo dell’accusa (il Pm Petroselli), che in teoria dovrebbe stare dalla parte della vittima. In teoria. In pratica no. Questa volta abbiamo visto un Pm che si è scagliato contro il morto.
Proprio ieri – in coincidenza con la richiesta di archiviazione dell’indagine romana – a Barcellona Pozzo di Gotto l’urologo è stato ricordato in occasione del quattordicesimo anniversario della morte, contrariamente alle altre volte in cui la manifestazione si è svolta il 12 febbraio. In realtà commemorarlo l’11 o il 12 non cambia molto: le indagini sono state talmente lacunose che ancora oggi non sappiamo se il decesso è avvenuto nelle ultime ore dell’11 o nelle prime del 12, giorno in cui Attilio Manca, intorno alle 11,30 del mattino, è stato ritrovato senza vita nel suo appartamento. La sostanza, in ogni caso, è che il giovane medico è morto. Il resto è avvolto nel mistero più fitto: quando è morto, come è morto, perché è morto, di cosa è morto. Domande alle quali, paradossalmente, ha risposto “solo” il medico legale Dalila Ranalletta, che ha effettuato l’autopsia senza la presenza di un perito nominato dalla famiglia. Già, perché alla famiglia, in quelle ore, sarebbe stato riferito dagli inquirenti che il congiunto era deceduto di morte naturale (aneurisma). Tutto si è giocato in quelle ore convulse, con un referto autoptico che presenta delle anomalie così vistose che definirle scandalose rischia di essere un altro eufemismo. Successivamente però – seppure in parte – si sarebbe potuto rimediare. Come? Consultando un bravo professionista e depositando una contro-perizia medico legale.
Non sappiamo di cosa si sia parlato ieri a Barcellona nel dibattito su Attilio Manca. Ma una cosa la sappiamo: che quando si archivia un caso è il momento di fare i bilanci. Immaginiamo che – come ogni anno – siano state efficacemente snocciolate le contraddizioni, le omissioni e le reticenze in cui sono incorsi gli inquirenti di Viterbo, e i motivi che hanno portato i magistrati romani a richiedere di archiviare il caso.
Ma proprio perché oggi è tempo di bilanci, bisogna guardare il caso a trecentosessanta gradi, tenendo conto del fatto che una vicenda complessa come questa va affrontata sotto i suoi molteplici aspetti (compreso quello medico-legale) da tutti, non solo dagli inquirenti.
Se la parte penale è stata controbilanciata efficacemente dagli avvocati della famiglia Manca, la stessa cosa possiamo dire sulla parte scientifica? C’è stato un contraddittorio in grado di mettere in risalto le gravissime anomalie emerse: a) dal sopralluogo effettuato dalla Polizia nell’appartamento di Attilio Manca subito dopo il rinvenimento del cadavere; b) dal referto dell’autopsia?
Se la risposta è positiva chiediamo umilmente scusa (evidentemente non ce ne siamo accorti), ma se è negativa bisogna dire che davvero l’unica persona che ha dato delle risposte scientifiche sulla morte dell’urologo (sgangherate quanto vogliamo, ma regolarmente depositate) è stato il medico legale Dalila Ranalletta, che ha eseguito l’autopsia, assieme ai professionisti che – per conto della Procura di Viterbo – hanno effettuato l’esame tossicologico e l’esame tricologico.
Il risultato è che – in casi così delicati e difficili – se non si pongono delle basi forti per sostenere un’impalcatura giudiziaria, c’è il rischio che le colonne erette – per quanto robuste – possano crollare e fare implodere un lavoro prezioso durato anni. Se certi compiti si demandano a quella poca stampa libera – ignorata e a volte osteggiata perfino dal “fuoco amico” – vuol dire che qualche autocritica ogni tanto va fatta. In ogni caso, anche al cospetto della richiesta di un’archiviazione, si è ancora in tempo per rimediare. Siamo speranzosi, malgrado tutto.
Luciano Mirone
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