“I molti mondi” è un “viaggio nel Tempo, nello Spazio e nell’Anima” che Fabio Cucciardi – alla seconda esperienza letteraria dopo “Dagli inferi alle stelle” – ci propone attraverso tre racconti articolati in 224 pagine nelle quali l’autore pone tre domande precise: “Avete mai pensato di commettere dei furti usando le equazioni della Meccanica Quantistica?”; “Avete mai voluto parlare con Tutankamon, passeggiare con Aristotele, cenare con Alessandro Magno?”; “Avete mai creato un mondo tutto vostro e giocato a fare (quasi) Dio per un po’?”. Se non lo avete mai fatto, “in questi 3 racconti – aggiunge lo scrittore – ci sono tutte le risposte… ma forse non tutte vi piaceranno…”. Una frase ironica, come il libro, scritto con leggerezza e senza prendersi troppo sul serio, perché per compiere il viaggio fantastico che immagina l’autore (facendo scalo nei “molti mondi” inventati da lui), probabilmente questo è l’approccio giusto. Duecentoventiquattro pagine di immaginazione pura, mischiata, forse, a brandelli di vita realmente vissuta ma manipolata con quella “visionarietà artistica” che lo scrittore si diverte a esprimere. In attesa che ci consegni il romanzo storico di cui abbiamo parlato recentemente. (l.m.)
Quello che segue è un estratto del libro:
Universo dove, quella sera, ho baciato Violetta
Sai a chi mi riferisco, vero? Non l’hai dimenticata nemmeno tu. Come potresti? Vogliamo ricordarla insieme?
L’ultima volta che entrambi l’abbiamo vista è stato moltissimi anni fa quando la storia che non era nemmeno nata era finita del tutto. Siamo stati due completi imbecilli, lo sai anche tu, non siamo riusciti ad approfittare dei piccoli segni di cedimento che Violetta ha mostrato. Ci ha fregati la nostra terribile timidezza, la paura che se fai la cosa giusta in realtà possa essere sbagliata. In poche parole, la concezione malata che abbiamo dell’esistenza. E per te è stato così, fino ad adesso.
Ma io, col frigorifero, sono andato a vivere al posto di quel nostro alter ego che, chissà come, è riuscito a tirare fuori il coraggio che serviva nel momento giusto.
Scommetto che stai pensando a quella sera che abbiamo sfiorato le labbra di Violetta, a quella sera che c’è mancato davvero poco, un millimetro o poco più nel vero senso della parola, a quella sera dove la sua mano giaceva nella nostra, a quella sera che per una strana, schizofrenica alchimia del nostro cervello, lei ci appariva meno bella del solito. Ci abbiamo ripensato dopo fino a sfinirci. Perché è accaduto? Come è stato possibile che quella ragazza che in ogni circostanza vedevamo bella e delicata come un fiore, proprio nel momento in cui abbiamo avuto l’occasione migliore per baciarla, ci appariva quasi brutta? Ci siamo risposti, non è vero? Sì…
È stata la paura, il panico, il terrore. In questo esatto crescendo…
Abbiamo creduto che in fondo non fosse così bella come avevamo pensato fino a qualche istante prima – era una notte di luglio e l’amavamo dai primi di gennaio – perché la paura di quello che sarebbe potuto succedere dopo ha steso il suo velo deformante davanti i nostri occhi e ci ha impedito di mantenere la nostra determinazione. Il desiderio più grande che in quei mesi definiva la nostra vita, si stava finalmente realizzando e la forza oscura, fattrice spesso del nostro destino, è intervenuta puntuale nel consueto ruolo di perversa sabotatrice.
Sì, lo ricordiamo bene quel momento.
Ma io sto pensando a un’altra sera, non a quella lì di luglio.
Non ricordo con esattezza quando, ma deve essere stato poco tempo prima.
Eravamo andati a cena in un grazioso ristorante in un piccolo e magico paese medievale, più o meno a metà strada tra le nostre case. La conversazione era stata piacevole e, forse, non l’avevo appesantita come facevo di solito con troppe smancerie.
Dopo essere usciti dal locale ci fermammo a chiacchierare ancora seduti nella sua automobile. Era tardi ed entrambi dovevamo affrontare parecchi chilometri per raggiungere casa, forse io qualcuno in più, ma a me non importava affatto.
Non volevo mai andarmene, mai lasciarla, volevo sempre trascorrere con lei il maggior tempo possibile.
Purtroppo, però, si arrivava sempre al momento dei saluti e del casto bacio sulla guancia.
Anche quella sera successe così, ma con una leggera differenza.
Forse sono io che ho interpretato male, ma ho avuto la chiara sensazione che nemmeno lei volesse lasciarmi andare. Lo sentivo nel morbido abbandono della sua mano, nel momento in cui gliela stringevo per salutarla, e lo percepivo nell’inclinazione del suo viso verso il mio. Era un po’ più pronunciata del solito, una maggiore porzione della sua guancia toccava la mia, e uno più pronto di me avrebbe capito che voleva dire non aperta opposizione, se non disponibilità, all’incontro delle nostre labbra.
Tutto questo ragionamento riuscii a farlo in una frazione di secondo mentre mettevo mano allo sportello per aprirlo e uscire dalla macchina. Nel mio cervello, per un istante, si è combattuta la battaglia fra i due fronti opposti della vigliaccheria e del coraggio, con quest’ultimo, al solito, mesto sconfitto. Nessuna esitazione si percepì, invece, nel linguaggio del corpo. Andai via di corsa, come un disertore che fugge alla prima scarica di mortaio. Salvo pentirmene amaramente quando le nostre automobili imboccarono strade diverse.
È lì che voglio andare: nell’universo dove un qualche me stesso è riuscito a togliere la mano dallo sportello, a girarsi di nuovo verso di lei, a guardarla negli occhi senza timore, ad afferrarla con garbo e fermezza e baciarla. I nostri destini, mio e di Violetta, sarebbero stati diversi se ci fossi riuscito anch’io nel mio universo. Ma qualche me stesso l’ha fatto e io, adesso, gli soffierò via il frutto di un coraggio che non ho mai avuto.
Eccolo lì. È comparso sullo schermo.
Guardalo. Se ne sta tronfio in una poltrona a leggere il giornale. Come sembra sicuro di sé, soddisfatto del suo modo di essere. Sembra perfino più magro di me. Anzi, lo è decisamente.
E Violetta? Dov’è?
Ci sono delle foto su un mobile dietro la poltrona dove il mio alter ego coraggioso sta leggendo, ma non riesco a vedere bene, sono troppo piccole per distinguere i soggetti.
Non vorrei finire in un universo dove sì, sono riuscito a baciare Violetta, ma poi la storia è finita ugualmente e lei si è sposata lo stesso con quell’altro, o con chiunque altro. No. Voglio andare nell’universo dove siamo marito e moglie, dove abbiamo anche dei figli, perché no?
Forse è meglio che corregga l’indirizzo sulla macchina da scrivere…
Universo dove, quella sera, ho baciato Violetta, dove siamo sposati e abbiamo dei figli
L’immagine sullo schermo cambiò immediatamente.
Evidentemente in quell’altro universo, anche se ero riuscito a baciarla, o non ci eravamo sposati o non avevamo avuto figli, o chissà che altro. Non mi importava.
Adesso vedevo un altro me stesso disteso in un letto matrimoniale e con una brutta cera. Forse era influenzato.
D’improvviso entrarono nell’inquadratura due bimbetti di non più di cinque anni. Un maschio e una femmina. Gemelli.
Erano i miei figli? Da come si tuffarono sul letto del me stesso ammalato e gli si appiccicarono al collo dovevano esserlo per forza. Anche il me di quell’universo li cinse con le braccia e li baciò. Poi entrò la madre con un bicchiere pieno d’acqua e una scatola di pillole in mano. In quel film muto che il video mi restituiva intuii che la donna stava benignamente rimproverando i due piccoli, forse per il rischio di prendersi anche loro la stessa malattia del padre se gli stavano così appiccicati.
I gemelli scivolarono a terra e corsero fuori della stanza.
La donna si sedette sulla sponda del letto e, finalmente, mostrò il suo volto a me, che la stavo guardando da chissà quanti universi di distanza e che per un terzo della mia vita avevo solo desiderato averla vicino. Era lei, era Violetta. In dieci anni non era cambiata per niente.
Mi piacque quel momento di intimità fra i due. Lei gli porse le pillole e gli mise una mano sulla fronte per sentirne la temperatura. Se mi sbrigavo potevo arrivare lì prima che la togliesse.
Mi infilai nel frigorifero e schiacciai il pulsante.
Mi ritrovai a letto e febbricitante, ma col volto più incantevole del mondo chino su di me, col sorriso indulgente che si regala agli ammalati disegnato sulle labbra che, adesso, ricordavo di aver baciato in una sera di inizio estate di molti anni prima.
Fabio Cucciardi
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