E’ polemica aperta tra la figlia di Paolo Borsellino, Fiammetta, e i magistrati di cinque procure antimafia che indagano sulla strage di via D’Amelio, che il 19 luglio 1992 fece a pezzi il magistrato antimafia. Alla vigilia del ventiseiesimo anniversario dell’altro terribile eccidio, quello di Capaci (dove fu ucciso Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta), Fiammetta non ammette silenzi e dice:
“Hanno ignorato la mia richiesta di un altro incontro e questa è la cosa peggiore che si possa fare”. Fiammetta non riesce a trattenere la rabbia e dice di avere appreso “in maniera ufficiosa” del no delle procure antimafia a rivedere i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, boss già incontrati dalla figlia di Paolo Borsellino lo scorso 12 dicembre nelle carceri di Terni e L’Aquila. “Ho avanzato la nuova richiesta al Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) un paio di mesi fa – dice – e per quanto il tempo in sia ormai una dimensione aleatoria, ritengo che il silenzio stia durando tanto”.
Dunque la figlia del magistrato trucidato il 19 luglio 1992 assieme agli agenti di scorta chiede di incontrare nuovamente i fratelli ritenuti mandanti (mai pentiti) delle stragi degli anni Novanta – compresa quella di via D’Amelio – , dell’omicidio di don Pino Puglisi e dell’attentato fallito a Maurizio Costanzo, ma, come lei stessa denuncia, i magistrati neanche le hanno risposto (almeno ufficialmente), anche se apprendiamo dal Fatto quotidiano che ben quattro Procure (Firenze, Palermo, Caltanissetta e Reggio Calabria, più la Direzione nazionale antimafia) avrebbero “sconsigliato” un nuovo incontro coi fratelli Graviano per paura dell’incolumità di Fiammetta. In ogni caso, a prescindere dal motivo di questo “silenzio”, il motivo deve essere serio.
Non foss’altro perché lo scorso 12 dicembre i fratelli Graviano, a lei, non hanno svelato chissà quale verità, tranne in un momento, quando Giuseppe ha fatto il nome di Silvio Berlusconi. Non per associarlo “direttamente” alla strage, ma per dire una cosa che appare buttata lì per caso. Una frase pronunciata nel contesto della discussione incentrata al periodo della sua latitanza trascorso a Milano e nel Nord Italia: “Lo dicono tutti che incontravo Berlusconi, ma più che io era mio cugino che lo frequentava”.
Non è una locuzione come tante, ma l’ammissione di un rapporto instaurato in un periodo “sensibile” come quello delle stragi. La frase può significare niente ma nel linguaggio criptico della mafia può voler dire tutto, specie se si pensa che Graviano, quando l’ha pronunciata, sapeva di essere intercettato, quindi potrebbe trattarsi di un messaggio “pesante” rivolto a qualcuno oppure di un depistaggio. Ecco perché i magistrati che si occupano delle stragi degli anni Novanta e della Trattativa Stato-mafia stanno cercando di interpretare quelle parole e di inserirle con prudenza nel contesto giusto.
E il contesto giusto – o almeno un pezzo significativo di esso – potrebbe essere quello risalente al giugno dello scorso anno quando uscì fuori un’altra intercettazione in carcere. Protagonista sempre Giuseppe Graviano.
“Berlusca mi ha chiesto questa cortesia… per questo c’è stata l’urgenza. Lui voleva scendere… Però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa”.
Qual è la “cortesia”, “l’urgenza” e la “bella cosa” Giuseppe Graviano non lo dice direttamente al co-detenuto col quale trascorre l’ora d’aria.
“Poi nel ’93 – prosegue Graviano – ci sono state altre stragi”. E nella frase successiva è esplicito: “Ma no che era la mafia”.
Una frase precisa, un’assonanza tipicamente siciliana, che vuol dire: non è stata la mafia, o comunque non è stata “solo” la mafia. “Loro – seguita Graviano – dicono che era la mafia”. “Allora il governo – dice ancora il boss – ha deciso di allentare il 41 bis, poi è la situazione che hanno levato pure i 450″. L’allusione riguarda la decisione, presa nel novembre del ’93, di revocare il carcere duro per 450 mafiosi.
Poi ancora una stoccata contro l’ex presidente del Consiglio: “Berlusconi quando ha iniziato negli anni ’70 ha iniziato con i piedi giusti, mettiamoci la fortuna che si è ritrovato ad essere quello che è”.
E fin qui la posizione di Graviano nei confronti dell’ex Cavaliere può essere ritenuta alquanto “moderata”. Nei brani successivi comincia il crescendo: “Quando lui si è ritrovato un partito nel ’94 si è ubriacato e ha detto ‘Non posso dividere quello che ho con chi mi ha aiutato’. Pigliò le distanze e ha fatto il traditore”.
Un’altra frase in cui il boss vuole dire che Berlusconi, dopo essere sceso in politica con l’aiuto di Cosa nostra, ha fatto una giravolta decidendo di “non dividere” il suo potere con chi lo aveva “aiutato”.
A quel punto, la conversazione di Graviano diventa uno sfogo: “Tu lo sai che mi sono fatto 24 anni, ho la famiglia distrutta…”, laddove “tu” sarebbe ancora il leader di Forza Italia.
E il risultato qual è? Che “alle buttane glieli dà i soldi ogni mese”. Le “buttane”, probabilmente, sarebbero le olgettine per le quali Berlusconi avrebbe scucito “soldi ogni mese”. Mentre “io” (cioè Graviano) “ti ho aspettato fino adesso … e tu mi stai facendo morire in galera senza che io abbia fatto niente”. E infine: io “ti ho portato benessere. 24 anni fa mi arrestano e tu cominci a pugnalarmi”.
Sia queste dichiarazioni, sia quella fatta a Fiammetta Borsellino sono al vaglio della magistratura, anche se in entrambe le occasioni il legale dell’ex presidente del Consiglio, Nicolò Ghedini, ha rimandato le sue accuse al mittente: “Graviano potrebbe avere depistato. Non mi risulta alcun incontro di Berlusconi con qualcuno legato al boss di Brancaccio”
Affermazioni che si aggiungono alle dichiarazioni di altri pentiti e agli indizi che in questo quarto di secolo hanno messo Silvio Berlusconi al centro delle vicende più traumatiche della storia d’Italia su cui stanno indagando diverse Procure.
Luciano Mirone
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