Quando qualche settimana fa gli avvocati Fabio Repici e Antonio Ingroia (legali della famiglia di Attilio Manca) hanno avanzato la richiesta di riesumazione del cadavere dell’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), trovato morto il 12 febbraio 2004 nel suo appartamento di Viterbo, abbiamo scritto: “Non riteniamo di commentare una notizia arrivata dopo oltre quattordici anni dalla morte di Attilio Manca, perché la notizia si commenta da sola”.
In quell’occasione abbiamo cercato di essere diplomatici. Da un momento all’altro si aspettava il pronunciamento del Gip sulla richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura della Repubblica di Roma, sicché abbiamo preferito evitare di acuire la tensione dovuta all’attesa di una decisione così delicata. Sui Social, in seguito alla pubblicazione di quell’articolo, un paio di persone hanno posto una semplice domanda (“Perché tutto questo ritardo?”), ma il silenzio dell’opinione pubblica – antimafia compresa – è stato tombale. Eppure l’aspetto medico-legale è il punto cruciale del caso Manca.
Adesso che la decisione del Giudice per le indagini preliminari Elvira Tamburelli è arrivata – purtroppo con l’archiviazione – crediamo sia giunto il momento di porre qualche domanda con il dovuto rispetto, ma con la chiarezza che una storia del genere merita.
In questi giorni, nel commentare l’archiviazione del caso Manca, abbiamo scritto che la caratteristica che connota questo fatto è l’apparenza. E quando la giustizia viene gestita in determinati modi, l’apparenza diventa forma e la forma diventa sostanza.
Evidentemente per la giustizia di Viterbo e di Roma non ci sono pentiti che tengano (i quali asseriscono univocamente che Attilio Manca non si è suicidato, ma è stato suicidato in quanto coinvolto nell’operazione di cancro alla prostata alla quale nel 2003 il boss della trattativa Bernardo Provenzano si sottopose a Marsiglia); né le clamorose ritrattazioni di qualche ex “amico” barcellonese della vittima (per esempio quella di Lelio Coppolino – che un Tribunale ha già definito “bugiardo” nel processo per l’assassinio del giornalista Beppe Alfano – addirittura barricatosi nel suo negozio quando “Le Iene” sono andate a intervistarlo proprio sul caso Manca); né il falso verbale della Squadra mobile di Viterbo scoperto dalla trasmissione “Chi l’ha visto”; né le siringhe esaminate otto anni dopo e trovate prive di impronte sia della vittima sia di altri; né l’atteggiamento stranissimo del cugino di Attilio, Ugo Manca, vicino agli ambienti mafiosi barcellonesi, condannato ad oltre dieci anni di reclusione per traffico di droga e assolto in secondo grado, che – come l’”amico” Coppolino – si dà alla fuga davanti alle telecamere delle “Iene.
Tutti questi elementi – aggiunti a tantissimi altri che questo giornale ha descritto centinaia di volte – non sono bastati ai magistrati per nutrire il beneficio del dubbio e per spingersi oltre il dato apparente.
E però non ci vuole tanto a capire che fin dall’inizio i magistrati di Viterbo, questa partita se la sono giocata sul piano scientifico circoscrivendo il fatto esclusivamente alle risultanze medico-legali, senza guardare (o senza voler guardare) alla vicenda nella sua interezza, ovvero nel contesto di Barcellona Pozzo di Gotto, epicentro della vicenda, città della vittima, nella quale Provenzano per un periodo avrebbe trascorso la latitanza.
Il problema è che in quel campo nessuno li ha mai contraddetti. Chi avrebbe dovuto farlo ha preferito focalizzare l’attenzione a tantissimi altri aspetti trattati con competenza, ma ritenuti “ininfluenti” dagli stessi magistrati.
E’ bastata un’autopsia – scandalosa quanto vogliamo, ma reale e mai contraddetta scientificamente – ; un esame tossicologico e un esame tricologico (idem) per portare i magistrati a chiudere il cerchio. Del resto, se la scienza dice che Attilio Manca era un assuntore pregresso, che nel suo corpo è stata trovata dell’eroina, e che nel suo braccio sono stati trovati due buchi, chi avrebbe mai potuto contraddirla? Non certo gli stessi magistrati che hanno nominato i periti.
Secondo quanto i Manca hanno sempre sostenuto – e secondo quanto sembra confermare un quotidiano di Viterbo dell’epoca – , solo dopo l’autopsia e gli esami collaterali, la famiglia fu informata che si trattava di un decesso causato da droga. Non prima. “Nelle ore precedenti – hanno sempre dichiarato i genitori del medico siciliano – nessuno ci informò che nell’appartamento di Attilio, a pochi metri dal cadavere, erano state ritrovate due siringhe”. E poi: “Tutti, inquirenti compresi, ci dissero che Attilio era morto per aneurisma cerebrale”.
Queste due circostanze avrebbero portato il padre, la madre e il fratello della vittima a non nominare un perito in grado di assistere all’autopsia per contestarne le eventuali contraddizioni. Del resto, al cospetto di una “morte naturale”, per la quale qualsiasi familiare è portato ad abbassare il livello di attenzione, perché nominare un perito, perché non fidarsi di quelli nominati dai magistrati, perché non fidarsi dello Stato? L’autopsia si svolse in presenza di un sacco di gente non registrata (contravvenendo a quanto previsto dalla legge) di cui non si è mai conosciuta l’identità, e per giunta con una serie di omissioni e di incongruenze da fare accapponare la pelle. Ma questo, in quei momenti convulsi, i familiari di Attilio Manca non potevano saperlo. Questo fatto, di cui nessuno parla, ha condizionato in modo determinante il resto della storia.
Ma se l’autopsia e i relativi esami sono stati eseguiti senza la presenza di un perito nominato dalla famiglia, chi ci garantisce – alla luce delle numerose anomalie emerse – che il risultato sia stato quello comunicato ufficialmente? Ecco perché, quando certi strafalcioni tecnici cominciavano ad evidenziarsi (poche settimane dopo), non sarebbe stato importante produrre – attraverso lo studio delle foto del cadavere, dei verbali di sopralluogo, del referto autoptico e degli esami collaterali – una relazione alternativa con eventuale richiesta di riesumazione della salma?
Molti “buchi neri” sono emersi solo nel 2016 con una lunga inchiesta a puntate che questo giornale ha condotto intervistando un docente di Medicina legale attraverso gli atti necessari. Perché nel 2016? Purtroppo le foto del cadavere erano state divulgate solo due anni prima, e certe carte necessarie a completare il mosaico medico-legale le abbiamo ottenute con estrema difficoltà (spiegarne i motivi è arduo. Diciamo che c’è stata una totale chiusura dei magistrati di Viterbo, ai quali era stata presentata formale richiesta).
Solo nel 2016, dunque, sul caso Manca, si è aperto un nuovo scenario risultato a dir poco agghiacciante, poiché i madornali errori autoptici intuiti empiricamente fino a quel momento, per la prima volta sono stati spiegati scientificamente.
Lo scopo dell’intervista al Medico legale, oltre a quello di informare i lettori, era ovviamente quello di sollecitare chi di dovere a portare avanti una battaglia su un versante decisivo. Abbiamo dovuto aspettare altri due anni (2018) per sapere che finalmente sul tavolo dei magistrati di Roma è stata presentata una perizia firmata da un Medico legale consultato dalle “Iene”, con relativa richiesta di riesumazione della salma. Troppo tardi? Beh, stando all’archiviazione del caso da parte del Gip, temiamo di sì.
Con il rispetto dovuto ad un avvocato che segue il caso da quattordici anni e ad un altro che lo segue da poco più di quattro (che da anni svolgono un egregio lavoro sul fronte antimafia), ci siano consentite due domande: 1) Perché si è aspettato tutto questo tempo per affrontare un aspetto fondamentale per l’accertamento della verità? 2) Se questo aspetto fosse stato affrontato all’inizio, il caso Manca sarebbe finito così?
Luciano Mirone
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