La notizia è grossa e per questo oggi sarà assente dalla grande stampa italiana. Uno dei “super testimoni” che hanno accusato Attilio Manca di essere un drogato è stato condannato a tre anni di reclusione per falsa testimonianza. Ovviamente non a Viterbo dove i magistrati sono certi di aver ottenuto La-verità-Tutta-la-verità-Nient’altro-che-la-verità con la condanna (senza prove) di una donna incolpata di aver ceduto all’urologo la dose letale di eroina con cui il medico, secondo loro, si sarebbe suicidato. Ma a Messina. Nel contesto di uno dei processi più importanti del dopoguerra: quello per l’assassinio del giornalista Beppe Alfano, nel 1994 condannato a morte dalla mafia perché “colpevole” di avere scoperto il nascondiglio segreto del boss di Stato Nitto Santapaola a Barcellona Pozzo di Gotto, guarda caso, la città dello stesso Alfano e di Attilio Manca, la città che ha ospitato per diverso tempo la latitanza di Bernardo Provenzano, la città dove è stato costruito il telecomando della strage di Capaci.
Questo tizio si chiama Lelio Coppolino, e nel caso di Attilio Manca ha un ruolo fondamentale, perché anche in quella vicenda egli ha affermato il falso. Eppure è stato creduto dai magistrati, con l’aggravante che è stato creduto consapevolmente, poiché Lelio Coppolino – a cadavere ancora “caldo” – aveva dichiarato alla Polizia che Attilio detestava qualsiasi forma di droga, tranne qualche canna fatta ai tempi del liceo. Ma quando, successivamente, la famiglia Manca ha cominciato a parlare di omicidio da mettere in correlazione con l’operazione di cancro alla prostata di Bernardo Provenzano in quel di Marsiglia (2003), ecco che Coppolino ha cambiato completamente versione dicendo che Attilio era un eroinomane, si drogava anche con la mano destra (dato che era un mancino puro) e che l’eroina, oltre ad iniettarsela nelle vene, la sniffava. Due versioni del tutto inconciliabili fra loro, sulle quali i magistrati di Viterbo non hanno inteso mai far chiarezza. Peccato che una di queste è falsa. E peccato che i magistrati di Viterbo – come quelli di Roma che ora hanno il fascicolo sulla morte dell’urologo – non possono non saperlo.
Ecco perché Lelio Coppolino è da considerare un bugiardo seriale. Ed ecco perché la sua condanna per falsa testimonianza – seppure in altro processo – riapre clamorosamente il caso Manca e, a nostro avviso, non può non essere tenuta in considerazione dal Gip romano Elvira Tamburelli, chiamata a decidere se accettare o meno la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura romana diretta da Giuseppe Pignatone, secondo cui – al pari dei casi di Emanuela Orlandi e di Ilaria Alpi – non esistono elementi sufficienti per proseguire l’indagine.
E invece, secondo noi, questo caso è sempre più attuale. Non fosse altro per il fatto che Lelio Coppolino – assieme alla combriccola barcellonese di cui fa parte anche Ugo Manca (cugino di Attilio), condannato ad oltre dieci anni per traffico di droga nel processo Mare nostrum e poi assolto – è stato ritenuto “il” testimone-chiave su cui è stata costruita la storia del suicidio per overdose del medico barcellonese.
Questa condanna per falsa testimonianza – se ancora la giustizia italiana ha un senso – dovrebbe rappresentare la classica pietra che fa venir giù la montagna. Una montagna di menzogne, di collusioni e di omissioni che in questi quattordici anni è stata “imbrigliata” da pezzi dello Stato – magistrati e politici soprattutto – impegnati a salvare qualcosa di talmente grosso da rischiare il ridicolo di fronte a un’opinione pubblica sempre più consapevole che Attilio Manca – come affermano i pentiti – non si è suicidato, ma è stato suicidato dai poteri deviati dello Stato legati a doppio filo a Bernardo Provenzano e al boss di Barcellona Rosario Cattafi, ritenuto – il caso poi è stato archiviato – uno dei mandanti esterni della strage di Capaci.
Ci chiediamo perché sono stati ignorati ben quattro collaboratori di giustizia, un sacco di testimonianze contraddittorie, reticenti o, peggio, mendaci; un rapporto falso redatto dall’ex capo della Squadra mobile di Viterbo, un’autopsia scandalosa del Medico legale. E ci fermiamo qui per ragioni di spazio. La condanna per falsa testimonianza di Lelio Coppolino conferma quello che dicono i pentiti: che la morte di Attilio Manca è collegata a quella di Beppe Alfano. Gli anelli di congiunzione hanno due nomi: Nitto Santapaola e Bernardo Provenzano, che a Barcellona Pozzo di Gotto hanno trascorso un periodo della loro lunghissima latitanza protetta dallo Stato.
La condanna per falsa testimonianza di Lelio Coppolino dovrebbe portare i magistrati a risalire al padre di costui, a quel Vittorio Coppolino che per primo – quando ancora nessuno sapeva nulla dell’operazione a Marsiglia di Bernardo Provenzano – confidò ai genitori di Attilio che la droga non c’entrava assolutamente nulla con il decesso del figlio, ma che bisognava guardare oltre. Oltre dove? A quell’intervento effettuato dal boss in terra francese, e alle cure (ovviamente segrete) che il medico gli avrebbe prestato in terra italiana. Dove? L’ex presidente della Commissione antimafia europea Sonia Alfano (figlia di Beppe) – intervistata dal sottoscritto – ha detto di sapere “con certezza” che si tratta di Barcellona Pozzo di Gotto. Qualcuno parla anche di Viterbo, ma non ci sono prove. Anche perché non sono state cercate le prove.
Tempo fa il procuratore aggiunto di Catania, Sebastiano Ardita, nel corso della presentazione del libro “Un ‘suicidio’ di mafia”, svoltasi a Messina, ha fatto una riflessione: nel periodo della morte di Attilio Manca, presso l’ospedale Belcolle di Viterbo (dove l’urologo prestava servizio da meno di due anni) era stata riservata un’ala ai mafiosi al 41 bis. Quindi in quell’ospedale esisteva una struttura preposta a questo. E anche dei medici. Ufficialmente non poteva esserci Provenzano, in quanto latitante, e non ci sono prove che costui sia stato a Viterbo per sottoporsi a delle cure. Ma intanto Ardita ha detto che non sarebbe male indagare anche in questa direzione.
Luciano Mirone
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