C’è una figura che si distingue per i depistaggi scattati nel corso delle indagini sulla strage di via D’Amelio. Il suo nome – secondo le motivazioni della sentenza stilate dai magistrati di Caltanissetta del processo Borsellino quater – è Arnaldo La Barbera, allora dirigente della Squadra mobile di Palermo, deceduto il 12 dicembre 2002, che ha svolto un “ruolo fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia” ed è “intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa”.
Secondo i magistrati siciliani, nei mesi successivi alla strage, La Barbera si muove alacremente per portare avanti “un’intensa attività investigativa” sul falso pentito Vincenzo Scarantino, che con le sue dichiarazioni ha condizionato l’accertamento della verità e ha fatto condannare all’ergastolo delle persone che con via D’Amelio non c’entravano assolutamente nulla.
Una “intensa attività” che comincia con una “nota” investigativa del Sisde – sollecitata dall’allora procuratore della Repubblica di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, il quale la trasmette alla Squadra mobile che indaga sull’eccidio, malgrado il divieto di collaborazione fra inquirenti e servizi segreti – sui trascorsi di questo “picciotto” che nel quartiere palermitano della Guadagna, più che mafioso, viene considerato un fessacchiotto capace solo di commettere reati comuni: figuriamoci una strage che necessita di una pianificazione (e di protezioni) ad altissimo livello.
Non è uno qualsiasi La Barbera: dal 1986 al 1988, mentre dirige la Squadra mobile di Venezia, intrattiene un rapporto di collaborazione ‘esterna’ con il Sisde. Nome in codice: Rutilius. Uno cazzuto. Al punto che considera “attendibili” le dichiarazioni di due illustri sconosciuti del sottobosco delinquenziale palermitano, tali Luciano Valenti e Salvatore Candura, detenuti per violenza sessuale e rapina, che accusano Scarantino della strage.
È così che due mesi dopo via D’Amelio, il “picciotto della Guadagna” viene raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per l’eccidio costato la vita a Paolo Borsellino e agli agenti Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina.
Da quel momento La Barbera imbocca questa pista, questa sola, anche se fin dall’inizio è chiaro che Scarantino con la strage non c’entra nulla, specie quando implora gli inquirenti (soprattutto il nome in codice Rutilius), spesso piangendo, di tirarlo fuori da questo incubo, perché lui, con via D’Amelio, non ha niente a che vedere. Addirittura una volta, secondo quanto scrivono i magistrati di Caltanissetta, tenta il suicidio. In altre occasioni, mentre si trova nel carcere di Pianosa, viene addirittura torturato. Nessuno si intenerisce. Tinebra addirittura gli dice che quell’attività di depistaggio, lui, Vincenzo Scarantino, deve considerarla “un lavoro”.
Per estorcergli la “confessione determinante”, viene collocato nel carcere di Venezia nella cella di certo Vincenzo Pipino, un trafficante di opere d’arte che Rutilius conosce fin dai tempi del servizio in Veneto. La Barbera utilizza Pipino come “agente provocatore” per raccogliere le confessioni di Scarantino. Saranno le “ambientali”, secondo lui, ad intercettare i segreti che dovrebbero rimbombare copiosamente in gattabuia. Non verrà intercettato nulla, Scarantino non parla, perché di quella strage, lui, non sa proprio niente. “Solo soliloqui”, scrivono i magistrati, “a parlare è solo Pipino, mentre il suo interlocutore non proferisce parola o accenna solamente qualche frase il più delle volte incomprensibile”.
Poi accade un episodio ancora più inquietante, l’ennesimo, di cui si rende protagonista un altro “confidente chiave”, Francesco Andriotta – altro “compagno di carcere” di Scarantino – il quale dichiara agli inquirenti che il “picciotto della Guadagna”, con lui, si è confidato. Segreti grossi, svelati a lui solo, che adesso bisogna consegnare alla giustizia: Scarantino è l’autore della strage, si è autoaccusato, dice Andriotta, l’ha detto a me perché è veramente pentito. Una serie di balle colossali, che naturalmente vengono prese per buone.
E però, in mezzo a tante menzogne, ci sono paio di dichiarazioni vere, che oggi la Corte d’Assise di Caltanissetta giudica parecchio inquietanti: per esempio le circostanze relative al furto della Fiat 126 (l’autobomba della strage) mediante la rottura del bloccasterzo, la sostituzione delle targhe, il collegamento dei fili dell’accensione, i problemi meccanici, il trasporto a spinta del veicolo fino al garage. Particolari che solo gli artefici del massacro, in quel momento, possono conoscere. Come mai una mezza calzetta come Andriotta ne è depositario fin dall’inizio? “Trattandosi di circostanze che mai lo Scarantino avrebbe potuto riferirgli”, scrivono i giudici, “per la semplice ragione che quest’ultimo non aveva avuto alcun ruolo nell’esecuzione della strage, deve necessariamente ammettersi una ricezione, da parte dell’Andriotta, di suggerimenti provenienti dagli inquirenti o da altri funzionari infedeli, i quali, a loro volta, avevano tratto le relative informazioni, almeno in parte, da altre fonti rimaste occulte”.
Un passaggio fondamentale quello che i giudici di Caltanissetta mettono a fuoco nella motivazione della sentenza: Andriotta avrebbe appreso cose vere, di cui, però, né lui né Scarantino, può essere a conoscenza. Quindi qualcuno ha svelato ad Andriotta dei particolari che solo i veri stragisti possono conoscere. Ma se Andriotta, da quanto viene dimostrato, non è mai stato in contatto con gli stragisti, chi lo ha istruito a dovere per svelare quelle circostanze? Evidentemente chi davvero ha avuto questi incontri ravvicinati.
Caltanissetta parla di “inquirenti” e di “altri funzionari infedeli” che hanno tratto informazioni da “fonti rimaste occulte”. Dunque è lecito pensare che, fin dai primi momenti, ci sono stati dei contatti fra segmenti delle istituzioni e gli autori (quelli veri) della strage. Questo dice Caltanissetta. “Tale inquinamento – scrivono i magistrati della città siciliana – si era già realizzato al momento in cui ebbe inizio la ‘collaborazione’ dell’Andriotta con la giustizia” (14 settembre 1993, un anno e due mesi dopo la strage).
Secondo i giudici siciliani, ad incontrare Francesco Andriotta in carcere (a più riprese) sono due persone: il dott. Arnaldo La Barbera e il dott. Mario Bo (funzionario di polizia inserito nel gruppo di inchiesta Falcone-Borsellino). Una storia che fa da preludio all’episodio successivo.
Finalmente, dopo due anni di indottrinamenti, di defatiganti letture di libri sul pentimento di Buscetta, magari a monosillabi, dato che Scarantino ha ripetuto per ben tre volte la terza elementare; di minacce, di torture, di depressioni, di tentativi di suicidio, di confessioni corrette a penna, il 24 giugno 1994 Scarantino inizia a “collaborare”, auto accusandosi della strage, accusando ingiustamente dello stesso reato altre sette persone che saranno condannate all’ergastolo (Salvatore Profeta, Gaetano Scotto, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe la Mattina, Gaetano Murana e Giuseppe Urso) e “confermando largamente il falso contenuto delle dichiarazioni precedentemente rese dal Candura e dall’Andriotta”. Del resto, come dice il buon Tinebra, è il suo “lavoro”: per lo Stato sta facendo il suo dovere.
Anche lui, nei mesi precedenti, aveva ricevuto, a più riprese, le visite di La Barbera e di Bo, secondo quanto si legge nelle motivazioni del Borsellino quater. Uno di questi incontri avvenuti con Rutilius, si verifica addirittura nel fatidico giorno del “pentimento”.
“Assolutamente anomala appare la circostanza che il Dott. Arnaldo La Barbera abbia richiesto dal 4 al 13 luglio 1994 altrettanti colloqui investigativi con lo Scarantino, detenuto presso il carcere di Pianosa, nonostante il fatto che egli già collaborasse con la giustizia”.
E poi: “Il proposito di rendere dichiarazioni calunniose – si legge nelle motivazioni della sentenza – venne ingenerato in lui (Scarantino, ndr.) da una serie di attività compiute da soggetti, come i suddetti investigatori, che si trovavano in una situazione di supremazia idonea a creare una forte supremazia psicologica”. In compenso La Barbera – dopo i depistaggi su via D’Amelio – verrà promosso: prima diventa questore di Palermo, poi di Napoli e poi di Roma, quindi va alla Direzione centrale della Polizia di prevenzione, con tanto di decorazione di commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica italiana.
Ma qual è, secondo i magistrati di Caltanissetta, lo scopo di uccidere Borsellino? Solo quello di eliminare un magistrato che, dopo la strage di Capaci, si mette di traverso per evitare che lo Stato faccia la trattativa con la mafia per evitare altri attentati? Caltanissetta si spinge oltre: “La morte di Borsellino – si legge – era stata voluta per esercitare una forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica”.
Luciano Mirone
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