Era la fine dell’estate quando, fra gli anni Sessanta e Settanta, mio padre fu mandato a comandare la compagnia dei carabinieri di Mistretta, un paesino adagiato sulle montagne del messinese, dove dalla cima di un cocuzzolo una Madonna bianca dominava su tutto. Un insieme di profumi si sprigionava dagli alberi e riempiva l’aria assieme ai colori limpidi del periodo che va dalla fine di agosto alla fine di settembre. La piazza, il circolo dei nobili, qualche aristocratico decaduto, i professionisti in giacca e cravatta, il circolo dei contadini, i vecchietti, una miriade di vecchietti, coi vestiti di velluto marrone, il passeggio nella via principale, i ragazzi che da lontano corteggiavano le ragazze impettite che uscivano solo la domenica, lo stile liberty del bar della piazza, le case di pietra, i balconi ridondanti di gerani, le strade scoscese, le scalinate, i vicoli, la chiesa di san Sebastiano.
Queste le immagini di Mistretta quando la vidi per la prima volta, un paese fatto interamente di pietra, incantato,a mille metri di altezza, appollaiato sui monti Nebrodi, dove c’era una delle ultime compagnie dell’Arma a cavallo. All’interno della caserma (dove avevamo l’alloggio) avevamo costruito pure il pollaio: ricordo le uova tiepide nel pagliericcio sotto la tettoia, ne bucavamo uno e lo succhiavamo.
Mistretta non si può descrivere, la sua bellezza supera la più fervida fantasia. Un paese a fortissima vocazione agro-pastorale, che allora – quando ancora non c’erano le autostrade – viveva come duecento, trecento, cinquecento anni prima. Non era arretrato, era primordiale, perché molta gente viveva a contatto con la natura e con gli animali, molto pulito. I muli e gli asini bevevano nel grande abbeveratoio, le pecore attraversavano le strade, le galline stazionavano davanti alle case, le mucche pascolavano nella campagna, l’odore del letame di mischiava col profumo degli alberi in fiore.
Pochi giorni dopo ero in groppa a un quadrupede, preceduto da un carabiniere coi baffoni risorgimentali che a piedi guidava l’animale lungo il paese.
Poi arrivò l’autunno. Le foglie si tinsero di giallo. La scuola cominciava il primo ottobre e nell’aria si sentiva l’odore delle prime piogge assieme al presentimento dell’inverno. Facevo la terza elementare e frequentavo la scuola di pomeriggio per via dei doppi turni. Qualche tempo prima c’era stato il terremoto che aveva causato danni anche alle scuole, ci si arrangiava in un edificio nuovo non dichiarato pericolante.
Quando il maestro si assentava andavamo in una campagna vicina alla scuola, ‘u vadduni: ore ed ore a catturare i passeri, ad imparare le più svariate parolacce, a partecipare a banali litigi che finivano puntualmente a botte. Giorni e giorni a mungere le vacche, a tenere fra i denti un pezzo di radice dolciastra ricavata dalla liquirizia selvatica, a raccogliere il muschio per il presepe, a mangiare un’erba aromatica, ‘u sciavuni, che cresce lungo i corsi d’acqua, a vedere scorrere il torrente dove in primavera facevamo anche il bagno.
Erano bambini semplici i miei compagni, scarponi pieni di creta, gesti e parole in dialetto strettissimo che sapevano di poesia: giocavano con degli oggetti primitivi e selvaggi dai quali mi lasciai coinvolgere, le fionde per sparare agli uccelli, costruite coi rami degli alberi e con le fascette della camera d’aria. E le chiàngule, micidiali trappole utilizzate per catturarli (crudeli marchingegni di fil di ferro dotati di gancio dove si infilava un pezzetto di pane), che scattavano attorno al collo dei poveri uccellini quando, affamati e infreddoliti, toccavano con il becco quella improvvida crosta di pane.
C’erano le bande che guerreggiavano fra loro. Il sogno di ogni bambino era quello di far parte della banda di Roberto, un ragazzino capace di colpire un uccello anche a cento metri di distanza.
Diverse mattinate le trascorrevo da un ciabattino che mi parlava dei paladini di Francia e dei grandi attori del teatro siciliano, Angelo Musco, Giovanni Grasso, Rosina Anselmi, che lui aveva avuto modo di ammirare nei teatri delle grandi città siciliane, mitiche e quasi irraggiungibili da quel paese lontano e isolato.
In caserma sentivo i dialetti più disparati, il veneto, il trentino, il laziale, il napoletano, il lucano, il pugliese, il calabrese, il siciliano. La compagnia di Mistretta doveva essere fornita di carabinieri giovani, possibilmente scapoli e in grado di fronteggiare le emergenze causate dalle tempeste di neve.
I giorni passavano ma quell’anno, di neve, nemmeno l’ombra. Eravamo arrivati a marzo, il calendario segnava il 21 ed era arrivata la primavera. C’era friddu di nivi ed ogni tanto arrivavano grosse folate di nivicaloru, ma ancora niente. Lo slittino che gli zii ci avevano spedito da Belluno era rimasto nel ripostiglio. Ormai non ci speravamo più.
Ma quella prima notte di primavera accadde una cosa fantastica. Fosforescenti fiocchi di neve calavano lentamente dal cielo, leggeri, simili a minuscole piume bianche. Si dondolavano, rischiaravano le tenebre, si adagiavano sui rami, sui vicoli, sulle piazze, sui tetti, sulla stalla, sul pollaio, sulla bottega del ciabattino.
Il giorno dopo il paese sembrava un presepe bianchissimo. Nelle strade qualcuno cercava di guadagnare il marciapiede. Ogni tanto si apriva qualche uscio e delle minuscole donne vestite di nero spazzavano la neve, mentre dai camini si sprigionava un filo di fumo che faceva presagire minestre di verdure e famiglie davanti al focolare. Tirammo fuori lo slittino e ci recammo in una strada scoscesa.
Quando tornai, controllai la trappola parata sotto la coltre di neve: c’era un passero, il collo stretto dalle morse del ferro e lui immobile, con gli occhi terrorizzati che mi guardavano. Era in agonia. Allargai le morse e lo avvolsi nel pugno, nella speranza di riscaldarlo con la mano. Il cuore batteva lentamente. Per proteggerlo gli accarezzai la testa. Poco dopo, il battito non si sentì più. Presi la chiàngula e la buttai, che vada al diavolo per sempre.
Fu la prima nevicata alla quale assistetti in vita mia, la prima e l’ultima dell’anno. Pochi giorni dopo il ghiaccio si sciolse e l’aria cominciò a intiepidirsi, e i cardellini nidificarono.
Un carabiniere salì su un albero e ridiscese con una gabbia: all’interno c’erano quattro uccellini appena nati, senza piume, sembravano dei vermiciattoli. “Adesso vedrai”. Piantò un chiodo su una finestra, appese la gabbia, si sedette e cominciò a pigiare le dita su un apparecchio nero che emetteva dei suoni strani: era il telegrafo. Il telegrafista inviava dispacci in tutta Italia e attendeva risposta. Frattanto i piccoli levavano il capino e chiedevano da mangiare. Pochi minuti dopo arrivò la loro mamma, si aggrappò alla gabbia e li sfamò, volò su un ramo per osservarli, tornò a cercare qualcosa e si riaggrappò alla gabbia. “Riusciremo a crescerli bene”, disse soddisfatto il militare.
Passarono altri giorni. A Mistretta si tenne la fiera annuale. Bancarelle di ogni tipo esponevano la più disparata mercanzia. Era il Millenovecentosettanta, per i mondiali in Messico mancavano poche settimane. In una bancarella erano esposti i sombreri. “Questi sono per voi”, disse mio padre. “Li indosserete quando vedremo le partite dell’Italia, saranno i portafortuna della Nazionale di calcio”.
La notte di Italia-Germania. Solo io, sentenziò mio padre, avrei visto la partita. Mio fratello, essendo più piccolo, doveva andare a letto. Allora facemmo finta di andare a dormire e dopo un po’ sgattaiolammo dalla branda. In sala mensa era presente l’Italia intera in divisa da carabiniere. Il buio della sala era rischiarato dalla luce del televisore in bianco e nero. Nella penombra si intravedeva la bandiera italiana che qualcuno aveva sistemato dietro la tivù.
I giocatori entrarono in campo, Nando Martellini scandì le formazioni, Albertosi-Burgnich-Facchetti… Improvvisamente un’ombra si intravide sulla parete del corridoio, minuscola, greve, leggera, e si avvicinò verso di noi, sovrastata da un immenso disco nero. Mio fratello si era svegliato ed aveva capito di essere stato ingannato. Indossava il sombrero e si avvicinava a piccoli passi. I carabinieri si misero a ridere. Una notte indimenticabile.
Luciano Mirone
Semplicemente grazie per la dettagliata e poetica descrizione di senzazioni e sentimenti intimamente conosciuti perché vissuti.