L’appello che l’altro giorno questo giornale ha lanciato agli elettori di sinistra di non votare Movimento 5 Stelle alle prossime elezioni europee (se il M5S non prende una posizione netta contro le sortite di Salvini nei confronti dei migranti), è stato parecchio letto e commentato.
L’articolo è stato pubblicato nel momento in cui l’ex presidente del Consiglio, Walter Veltroni, ha invitato i militanti progressisti (specie quelli del Pd, partito di cui è stato fondatore e segretario) a impegnarsi attivamente per costruire una sinistra moderna in grado di fermare la deriva razzista e xenofoba che sta montando nel nostro Paese. Non comprendiamo – pur condividendo diversi punti dell’appello – perché Veltroni ed altri esponenti prestigiosi della sinistra (a cominciare da Massimo Cacciari) abbiano la tendenza a parlare dei massimi sistemi, senza spendere una sola parola sulla questione morale, argomento che, secondo noi, ha fatto perdere milioni di consensi alla sinistra, fino a lasciarla tramortita alle ultime elezioni, con conseguenze devastanti sulla sua identità e sul suo futuro.
Intanto riprendiamo il bandolo della matassa che riguarda il M5S, di cui abbiamo seguito con interesse l’evoluzione politica fino all’ultima campagna elettorale, quando ha continuato coerentemente a parlare di etica, di mafia, di lavoro, di ambiente, di tanti altri argomenti che fanno parte del “manifesto” del Movimento fondato da Beppe Grillo, su sui i Cinque Stelle sono stati formidabili, al punto da sfidare la sinistra sul suo terreno e di batterla.
Che piaccia o no, il M5S, è stato percepito come una formazione trasversale ma con grandi capacità di captare soprattutto il voto di sinistra (basta leggere gli studi demoscopici per capire ), pur mantenendosi in taluni casi abilmente ambiguo. Due esempi fra gli altri: il tentativo di un’alleanza al parlamento europeo con la destra inglese di Farage, prontamente rientrata per evitare un’emorragia di voti dall’altra parte; il silenzio sul tema dell’immigrazione per non perdere voti a destra.
La politica, da che mondo è mondo, si distingue in destra e sinistra, o, se volete, in conservatori da un lato e in progressisti dall’altro (una contrapposizione che esiste anche all’interno dei partiti). I primi tradizionalmente legati a principi come ordine, disciplina, Dio, patria, famiglia, identità; i secondi – dando per scontato il rispetto di molti di quei principi – legati ai valori della pace, della fratellanza, dell’uguaglianza, della legalità, del rispetto, del lavoro, della solidarietà.
A chi teorizza l’amore verso Dio, viene controbattuto che quell’amore bisogna praticarlo attraverso il rispetto della persona umana. A chi teorizza ordine e disciplina, si controbatte che non è la coercizione a migliorare la società ma la vivibilità e la bellezza. A chi sostiene il primato della Patria, si controbatte parlando dei partigiani che l’hanno difesa dagli invasori che fino al giorno prima ne glorificavano il significato.
Delle degenerazioni della destra e della sinistra – sfociate nel fascismo, nel nazismo e nel comunismo – ci asteniamo dal parlare, perché il discorso porterebbe lontano e non fa parte del tema di oggi.
Siamo d’accordo però con Pasolini quando diceva che il partito comunista (e, aggiungiamo noi, il partito socialista di Pertini e di Nenni), dal periodo della Seconda guerra mondiale agli anni Settanta del secolo scorso è stato un baluardo di democrazia e di conquiste sociali di straordinaria portata, così come siamo d’accordo con Aldo Moro quando parlava allo stesso modo della Democrazia cristiana relativamente al medesimo periodo.
Tutto questo è stato possibile fino a quando la “questione morale” – tematica posta drammaticamente negli anni Ottanta da Enrico Berlinguer – ha retto all’interno delle due grandi formazioni politiche. Quando il danaro, il consociativismo e le collusioni hanno preso il sopravvento sui valori è cambiato tutto. Un cambiamento coinciso con la morte dei più strenui difensori di quei valori. I quali, pur nella loro diversità, trovarono una sintesi sull’etica, sulla lotta alla mafia, sulla pace, sul disarmo nucleare, sull’ambiente: quegli uomini si chiamavano Aldo Moro, Enrico Berlinguer, Piersanti Mattarella e Pio La Torre. Non a caso tre di questi (Moro, Mattarella e La Torre) sono stati assassinati.
Da quel momento l’Italia ha subito una decadenza che dura ancora oggi. Il posto di Moro è stato preso da Andretti, quello di Berlinguer da Craxi, e poi Berlusconi, Dell’Utri, Fini, Bossi…
La sinistra, dopo le esaltanti “primavere” come quella di Palermo e la vittoria di tanti sindaci progressisti nel 1993, non è riuscita, o c’è riuscita solo a sprazzi, ad imporsi pienamente nel panorama politico.
Negli anni Duemila, improvvisamente (in coincidenza con una crisi economica senza precedenti) si è imposta questa nuova formazione politica, il Movimento 5 Stelle, nata sì dal disagio e dalla protesta, ma capace di elaborare un progetto politico autonomo basato su alcuni temi che fanno parte del Dna della sinistra: la corruzione, la mafia, il lavoro, la povertà e tanto altro.
Mentre i leader della sinistra inciuciavano con il peggio della destra e con le banche, i 5S si decurtavano lo stipendio di parlamentari e lo devolvevano alle piccole e medie imprese, subendo gli sberleffi del ceto politico più smaliziato, con tanto di accuse di demagogia, che alla gente – piagata dalla crisi economica – provocava l’effetto opposto.
Su un tema però il M5S ha mostrato ambiguità: l’immigrazione. Su questo punto confessiamo di non aver percepito la stessa determinazione che il movimento di Di Maio ha mostrato su altri argomenti. Eppure è stato votato in massa da un popolo che oggi, forse, capisce che le ambiguità non sono mai casuali e si ribella.
Ma anche in questo caso (fatto rilevare anche da Veltroni nel suo articolo), le responsabilità della sinistra sono enormi. Dopo le elezioni – quando è arrivato il momento di formare il nuovo governo – il partito di Renzi, anziché accettare la proposta di fare maggioranza con i 5S, ha portato il Movimento di Di Maio fra le braccia di Salvini, auto relegandosi all’opposizione, da dove ogni giorno sbraita senza alcun risultato, visto che non riesce a trovare la strada maestra per un serio rinnovamento dei suoi quadri, del suo linguaggio, dei suoi contenuti. Fino a quando buona parte del gruppo dirigente romano e periferico non andrà a casa, risulterà poco credibile e perderà.
Il Movimento 5 Stelle, dal canto suo, ci sembra all’angolo, spinto da un Salvini sempre più tonico nel mostrare i suoi muscoli contro l’Europa e contro i migranti. Se il Movimento fondato da Grillo cerca di giocare le sue carte soprattutto sulla politica economica (che richiede tempi lunghi, ammesso che ci siano le risorse per attuarla), la Lega le spariglia ogni giorno, forte del “piano B” (il governo con Berlusconi, che intanto assiste sornione allo spettacolo) se l’esecutivo Conte dovesse cadere, e dell’appoggio della destra di Stati Uniti, Russia, Ungheria e Polonia.
Oggi il popolo della sinistra rileva che il silenzio del Movimento 5 Stelle rispetto alle posizioni di Salvini (che vanno ben al di là della ripartizione dei migranti nei Paesi dell’Ue, come richiesto giustamente da questo governo) e alle aggressioni che quotidianamente subiscono in Italia molte persone di colore, rischia di diventare devastante; percepisce che qualcosa di brutto sta succedendo nel ventre del Paese e comincia a ribellarsi. Per quanto ci riguarda, continuiamo a ritenere il Movimento di Di Maio una risorsa per l’Italia, ma a condizione che esca fuori dall’ambiguità sui migranti e superi la subalternità nei confronti della Lega.
Abbiamo l’impressione che il nostro articolo dei giorni scorsi sia stato mal digerito da una parte della base pentastellata, da cui, invece dei soliti argomenti e dei soliti attacchi, ci saremmo aspettati un minimo di autocritica. Invece niente, e ce ne dispiace. Pensiamo che sia arrivato il momento di porsi qualche domanda, anche perché di tempo per opporsi con decisione a certo estremismo non ce n’è poi tanto.
Luciano Mirone
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