La sua è una testimonianza toccante che fa venire il groppo alla gola. Si chiama Maria Luisa Iavarone, è una docente dell’Università Napoli Parthenope, è la mamma di Arturo, un ragazzo di diciassette anni che lo scorso dicembre è stato picchiato quasi a morte da una banda di ragazzini poco meno coetanei. “Il 18 dicembre 2017 – dice la donna – ricevo una telefonata strana. La voce che sta dall’altro lato mi chiede di accorrere a 150 metri da casa mia perché c’è mio figlio che non sta bene. Immaginate con quale ansia disperata percorro quel tratto di strada e quando arrivo, trovo mio figlio trafitto da molte coltellate, immerso in un bagno di sangue. La mia prima domanda è: perché tutto questo? Mio figlio era ferito in maniera gravissima ed atroce. Nessuno aveva chiamato un’ambulanza, nessuno l’aveva soccorso. Con una macchina privata lo portiamo in ospedale, le sue condizioni peggiorano di minuto in minuto e non si riesce neanche ad intubarlo”.
La signora Iavarone parla della sua triste vicenda durante il dibattito dal titolo Bulli e vittime: come impedire che la violenza rovini la vita dei nostri figli, inserito nell’ambito della cerimonia di premiazione della XVIX edizione del Premio Letterario Brancati Zafferana.
“Si è scoperto che in quattro si erano scagliati contro uno e per giunta di spalle”. Poi mostra le immagini delle ferite di Arturo. Sono tante e sono segni di coltellate. Raccapriccianti. Alla testa, alle spalle. Una di queste ha perforato il polmone, un’altra lo ha preso vicino alla giugulare e gli ha reciso una corda vocale. “Per fortuna Arturo non è morto, si è salvato, ma non riesce a respirare bene e parlare bene. Arturo porta ancora i segni delle ferite fisiche, ma soprattutto psicologiche. La storia di Arturo è diventata la testimonianza di questa lotta contro la violenza. Se non avessimo fatto questo, Arturo sarebbe stato ancora più vittima. Io oggi mi porto addosso tre gradi di dolore: da madre, da insegnante e da cittadina. Se accadono fatti come quello di cui è stato vittima mio figlio vuol dire che qualcosa nella famiglia, nella scuola, e nello Stato non funziona. Ho pensato che la mia lotta, da sola, non avrebbe avuto senso. Ho pensato di fare sistema, rete. E così ho costituto un’associazione, ‘ARTUR’ (Adulti Responsabili per un Territorio Unito contro il rischio)”.
Dalle parole di Maria Luisa trapela un sentimento di rabbia: “Uno degli autori delle coltellate a mio figlio aveva già riportato una condanna, era stato affidato ai servizi sociali che però hanno fallito alla grande, in quanto non hanno vigilato”.
“Esistono singoli ragazzi a rischio su cui occorre intervenire subito con percorsi di sostegno alla genitorialità. Per crescere dei figli sani occorre incidere anche sui genitori che devono impegnarsi a portare i figli a scuola, all’attività sportiva, insomma a fare attività sane ed educative”.
Anche l’intervento di Anna Oliverio Ferraris fa accapponare la pelle quando racconta la storia di una ragazza vittima di bullismo in cui i testimoni non solo non hanno fatto niente per fermare i bulli ma addirittura hanno filmato il fatto e l’hanno messo su facebook per ottenere tanti like. “La cosa ancora più grave – afferma – è che davanti ad atti di maltrattamenti ad opera di bulli, gli altri, i testimoni, assistono senza fare niente. Ai ragazzi piace assistere alla violenza altrui. Si assiste allo spettacolo e non si fa niente, o per paura o per il piacere di vedere. La violenza nasce dall’aggressività. I bulli, a loro volta, hanno fratelli che usano violenza nei loro confronti e poi loro, per vendicarsi, scaricano la violenza sugli altri compagni. L’aggressività è innata ma può essere canalizzata se viene mediata dalla cultura e trasformarsi in arte, in grinta, in impegno, in voglia di fare, cioè in cose positive di cui gli altri possono fruire”.
Il professore di Pedagogia generale all’Università Kore di Enna, Giuseppe Burgio, porta in piazza la sua triplice esperienza di vittima prima, di insegnante dopo ed infine di studioso: “Il bullo è consapevole che quello che fa non è giusto, che non è bello, ma lo fa lo stesso perché persegue il suo obiettivo di un bisogno identitario. La vittima ha bisogno di cure pedagogiche, ma questo bisogno ce l’ha anche il bullo che deve essere accompagnato nella crescita, a diventare adulto. Il lavoro positivo deve puntare sulle cause del bullismo e non solo sugli effetti. Bisogna lavorare in termini educativi ed occorre un lavoro estremamente complesso. Oggi il bullismo si amplifica con i nuovi media e dà vita al cyberbullismo. Il bullismo svolto di presenza, prosegue online, su internet. E per loro è come se fosse un gioco. Spesso questi bulli si giustificano con frasi del tipo Noi scherzavamo”.
Oliverio Ferraris traccia un suo profilo del bullo: “E’ un insicuro, uno che ha un complesso di inferiorità”. Un modo per aiutare vittime e bulli? “Aiuta molto – spiega Oliverio Ferraris – l’attività teatrale. Io seguo il metodo dell’inversione dei ruoli: alla vittima faccio fare la parte del bullo e al bullo quella della vittima. In questo modo i ragazzi sono aiutati ad immedesimarsi, perché vivere in prima persona certe emozioni fa capire come ci si sente dall’altra parte, altrimenti non si ha mai la percezione reale di quello che accade”.
Rosalba Mazza
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