Serafina Strano, è passato un anno dalla violenza che il 19 settembre lei subì mentre era di turno presso la Guardia medica di Trecastagni (Catania). Può ricordare come si svolsero i fatti?
“E’ un ricordo che affiora nella mia memoria tutti i giorni, purtroppo anche più volte al giorno. Intorno a mezzanotte sentii suonare il citofono, aprii, era un ragazzo che un po’ conoscevo perché precedentemente aveva chiesto assistenza medica; quella notte chiedeva un antidolorifico per il mal di denti. Lo feci entrare e appena gli voltai le spalle mi aggredì e mi violentò per circa un’ora e mezza. Un lasso di tempo eterno in cui restai sua prigioniera dentro quei maledetti locali della Guardia medica”.
Quando entrò, lui chiuse le porte?
“No. Lasciai accostato il portone: una sorta di misura di sicurezza che ci eravamo imposti tra colleghi”.
Quindi il portone rimase aperto?
“Sì, le porte erano aperte, ma io non avevo possibilità di chiamare i soccorsi, dato che ero da sola e lui con la sua forza riuscì a tenermi dentro, malgrado il mio iniziale tentativo di fuga”.
Ha chiesto aiuto?
“All’inizio cominciai a gridare, poi vedendo che ero isolata e che la situazione si faceva pericolosa, cercai di capire come fuggire: l’unico modo per riuscire a salvarmi era quello di uscire da quella prigione, cosa che poi avvenne”.
Lei cercò di suonare un allarme o di azionare il telefono?
“Appena cercai di attivare il pulsante del braccialetto in dotazione (il pulsante mobile, un rudimentale sistema che attiva una telefonata ai carabinieri), lui staccò il ricevitore dalla parete e io rimasi completamente isolata”.
Che tipo era l’aggressore? Le cronache lo hanno descritto come un soggetto affetto da problemi.
“Aveva abusato di alcol e veniva da una famiglia un po’ disagiata, però nei giorni precedenti era sostanzialmente tranquillo. In Guardia medica era venuto parecchie volte in condizioni normali”.
In passato aveva tentato approcci nei suoi confronti?
“Assolutamente no. Era molto educato”.
Avevate segnalato prima di quella sera queste criticità relative alla sicurezza della Guardia medica?
“Sì, certo. Pochi mesi prima erano stati installati il telefono per far partire la chiamata di emergenza ai carabinieri, e delle ridicole telecamere”.
Perché “ridicole”?
“Perché era un sistema a circuito chiuso, non collegato (come invece ci era stato promesso dal direttore sanitario Franco Luca) ad alcun servizio di vigilanza”.
Quante ore di servizio notturno svolge un dottore all’interno di una Guardia medica?
Si tratta di turni di dodici ore: dalle 20 alle 8”.
Come si fa a rimanere solari, disponibili al dialogo, forti e sorridenti come lei, malgrado una ferita del genere?
“E’ una ferita che neanche io so quanto sia profonda”.
Con quale stato d’animo ha vissuto questo trauma?
“Con una rabbia tremenda, che forse mi ha dato la forza di andare avanti, perché di solito ci si chiude in se stessi. Il disturbo post traumatico da stress è caratterizzato più dalla depressione che dalla reattività”.
Perché prova rabbia?
“La rabbia è profondissima: questa è la storia di una tragedia annunciata. C’erano stati molti precedenti a livello nazionale. In Sardegna qualche collega che ci ha rimesso la vita. Un delitto efferato che mi colpì profondamente fu quello perpetrato nei confronti della povera Roberta Zedda. In quel caso un ragazzo la violentò e poi la uccise”.
Se ne verificano violenze nelle Guardie mediche?
“Sì. I casi non denunciati pare che siano tantissimi”.
Lei è sposata ed ha due figlie gemelle di quattordici anni. Questa storia come è stata vissuta in famiglia?
“Grazie a Dio, tutto sommato, non in maniera devastante come sarebbe potuto succedere. Infatti all’indomani dell’aggressione, essendo consapevole di non aver subito dei grossi danni (ero tutta pestata, con ferite guaribili in un tempo relativamente breve, ma ero viva), ho temuto tantissimo per la salute psicologica della mie figlie: una cosa del genere credo che possa influire negativamente se non si sa gestire e non si ha la forza, la compostezza e la lucidità di gestirla. Questa cosa ha alimentato la mia rabbia, perché ho detto: non può essere giusto che paghino le mie figlie e mio marito, che ha sofferto molto”.
Perché ha deciso di denunciare?
“Perché sono fatta così: molto franca, molto chiara e a volte forse molto polemica. Ho capito immediatamente che se mi fossi chiusa nel mio dolore, questa storia sarebbe caduta nel dimenticatoio, quindi ho realizzato che a tutti i costi avrei dovuto renderla pubblica: tutti dovevano sapere cosa mi era successo. In in famiglia non tutti erano d’accordo che uscisse il mio nome, non ho sentito ragioni ”.
E allora qual è stata la molla che l’ha indotta a parlare?
“Non potevo sopportare, come è avvenuto a poche ore dalla tragedia, che i responsabili, i dirigenti dell’Asp, cominciassero a muoversi in una vera e propria campagna denigratoria nei miei confronti, mettendo in evidenza che tutto era a posto, che tutto andava bene, che ero stata aggredita perché non avevo saputo usare i sistemi di sicurezza. Quella è stata la molla che ha fatto scattare in me la decisione irrevocabile di portare avanti questa battaglia. Devo dire grazie alla mia famiglia e ai miei amici più veri”.
Luciano Mirone
1^ puntata. Continua.
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