Cosa si ricava leggendo la relazione della Commissione antimafia regionale siciliana sulla strage di via D’Amelio? Un ennesimo pugno nello stomaco per la modalità con la quale “il più grande depistaggio della storia d’Italia” è stato ordito da esponenti del mondo istituzionale, ma anche delle perplessità su come è stato liquidato un magistrato a rischio come Nino Di Matteo (“padre” del processo Trattativa, vicenda che con i fatti di via D’Amelio è strettamente connessa), recentemente attaccato dalla figlia di Paolo Borsellino, Fiammetta, per le modalità con le quali, all’epoca, furono condotte le indagini sull’assassinio del padre.
All’epoca dell’attentato di via D’Amelio, Di Matteo era agli inizi della carriera: come giovane Pm faceva parte della Procura di Caltanissetta che indagò sulla strage, una Procura diretta da un personaggio equivoco come Giovanni Tinebra, massone secondo molti, e indicato, secondo i processi, fra i primi depistatori dell’inchiesta, assieme all’ex capo della Squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera (ex appartenente ai servizi segreti), con l’”ispirazione” eccellente dell’ex capo della Polizia Vincenzo Parisi, molto solerte nel sollecitare Tinebra (mediante un familiare) a collaborare coi servizi – fatto assolutamente vietato dalla legge – e con Bruno Contrada, allora numero 3 del Sisde, arrestato una settimana dopo la strage.
Dunque ci furono pezzi dello Stato che si adoperarono – ognuno a diverso titolo – per fare deragliare l’indagine verso il binario della menzogna e dell’impunità, con altri pezzi appartenenti ai piani più alti dei Palazzi che non potevano non sapere.
Quell’indagine finì davvero nelle mani dei servizi segreti deviati, i quali ebbero vita facile a “vestire il pupo” inventando il falso pentito Vincenzo Scarantino, balordo dedito alla vendita di sigarette di contrabbando nel quartiere palermitano della Guadagna, che – dopo torture, lavaggi del cervello, e versioni di comodo mandate a memoria – si addossò la responsabilità del massacro facendo condannare dei mafiosi che con via D’Amelio non c’entravano nulla. Per vent’anni abbiamo assistito a questa farsa di Stato, alla quale un’opinione pubblica sempre più attonita, ha creduto.
Solo l’intervento di alcuni pentiti “veri” ha ristabilito una verità che si sarebbe potuta accertare subito: basti pensare alla segnalazione trasmessa per iscritto poco tempo dopo la strage al procuratore Tinebra da Ilda Boccassini e Roberto Sajeva, anche loro giovani Pm a Caltanissetta. Non era difficile capire che Scarantino barava e che i suoi registi si muovevano alla luce del sole per imbeccarlo in carcere. Anche uno stupido si sarebbe accorto del livello troppo basso del picciotto della Guadagna, non tanto dal punto di vista culturale (inesistente), ma proprio dal punto di vista delinquenziale.
Per organizzare una strage di quel genere occorreva un retroterra criminale di altissimo livello, che un venditore di stecche di sigarette non avrebbe mai potuto avere. Anche uno stupido avrebbe capito che il depistaggio era stato pianificato fin nei minimi particolari, addirittura prima dell’eccidio, lungo il triangolo Caltanissetta-Palermo-Roma, con un epilogo al quale abbiamo assistito decine di volte: verità processuale accertata dopo decenni “solo” per i mafiosi e al massimo per qualche inquirente della periferia (nel frattempo Tinebra e La Barbera sono passati a miglior vita); verità politica ricostruita come “contesto storico” per certi nomi altisonanti dell’impero: ad esempio, il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro della Giustizia Nicola Mancino, citati nella relazione.
Del resto, è la “verità politica” che la Commissione presieduta da Claudio Fava – ben lungi dal sovrapporsi al lavoro dei magistrati, come viene spiegato – si era ripromessa di accertare attraverso la produzione di atti processuali e di testimonianze dirette dei protagonisti (vivi) di questa inchiesta surreale contraddistinta da molti “non ricordo”, che lo stesso Fava evidenzia in più occasioni.
Nei giorni scorsi si è polemizzato parecchio sui compiti della Commissione regionale antimafia: secondo una corrente di pensiero, con l’indagine su via D’Amelio, l’organo di Palazzo dei Normanni sarebbe andato ben oltre i limiti previsti dalla legge. Secondo un’altra ha dato un utile contributo sulle dinamiche dei depistaggi, pur non avendo aggiunto nulla di clamoroso rispetto a quanto accertato dai giudici. Su questo aspetto, noi sposiamo la seconda corrente di pensiero.
La Commissione ha avuto il merito di selezionare le parti salienti dei vari processi e di raggrupparle in settantotto pagine piene di collegamenti e di nomi. Ha cercato – con i limiti delle verità processuali accertate finora – di fare emergere alcune responsabilità politiche. Ha svolto, nel rispetto della legge, un lavoro autonomo ascoltando, come detto, molti testimoni di quella terribile estate di sangue. Ha messo in evidenza i motivi che hanno portato la Procura nissena ad ignorare per ben cinquantasette giorni un testimone chiave della strage di Capaci (23 maggio 1992) come Paolo Borsellino, morto guarda caso nel giorno fissato per la sua deposizione a Caltanissetta. Ha fatto rilevare le gravissime omissioni relative al confronto fra Scarantino e tre mafiosi accusati della strage che lo smentivano clamorosamente, senza che gli inquirenti avessero mosso un dito per compiere i dovuti riscontri.
Una relazione utile – a nostro avviso – per chi vuol capire le trame intessute da quel maledetto 19 luglio 1992, quando poco dopo l’attentato la borsa di pelle di Paolo Borsellino (che conteneva l’agenda rossa piena degli appunti sui segreti inconfessabili della strage di Capaci) fu prelevata dalla macchina blindata passando di mano in mano e poi, magicamente, fu depositata – priva dell’agenda rossa – nell’ufficio di La Barbera. Su questo, e su molto altro, riteniamo illuminante il lavoro svolto dalla Commissione presieduta da Fava.
Su Di Matteo, invece, concordiamo con quanto scritto da Scorta civica Catania: ci saremmo aspettati un trattamento diverso. Non attraverso la censura del suo nome, ci mancherebbe, ma attraverso il racconto sintetico dello straordinario lavoro che il magistrato palermitano ha fatto – assieme ai pubblici ministeri Del Bene, Teresi e Tartaglia – successivamente sul processo Trattativa, giunto ad una condanna in primo grado di imputati eccellenti come Marcello Dell’Utri e il generale Mario Mori (tanto per citare i più importanti). Un processo che rappresenta una pietra miliare, perché (diversamente dal Borsellino quater, che è riuscito ad ottenere la condanna dell’ala militare della mafia) mette sotto accusa il sistema politico.
Ecco perché Di Matteo non può essere considerato semplicisticamente un magistrato del pool di Tinebra e messo sullo stesso livello di altri che di quel pool hanno fatto parte, come è stato descritto nella relazione dell’Antimafia regionale. Di Matteo, certo, è stato “anche” questo – con tutte le attenuanti che si possono attribuire ad una esperienza limitata alla giovane età – ma è stato ed è ben altro, nel senso che da quel momento ha tratto una lezione professionale che gli ha consentito di andare coraggiosamente e beffardamente “oltre”, dedicando la sentenza memorabile di primo grado del processo Trattativa proprio a Paolo Borsellino (secondo noi non a caso). Si potrà obiettare: questo è ormai acclarato, non era necessario inserirlo nella relazione.
Punti di vista. I recenti attacchi mossi contro di lui da Fiammetta Borsellino, probabilmente non gli hanno fatto bene. Se a questo aggiungiamo che questa relazione – stesa con toni garbati dal figlio di un’altra illustre vittima di mafia – sembra sintonizzarsi, suo malgrado, sulla lunghezza d’onda del magistrato ucciso in via D’Amelio, dobbiamo dedurre che Di Matteo rischia di uscire indebolito da questa vicenda.
Perché, vedete, una cosa è il “fuoco nemico” (che il più delle volte rafforza la vittima), un’altra il “fuoco amico”, che rischia di delegittimare e di isolare un personaggio esposto come il “padre” del processo Trattativa. Per questo, quando il concerto di Natale dei bambini dell’Orchestra Falcone Borsellino di Catania è stato dedicato a Nino Di Matteo, L’Informazione ha messo in risalto l’articolo che parlava dell’evento. Perché questo giornale – è bene ribadirlo – sta al fianco di Di Matteo.
Ma anche al fianco di Claudio Fava (recentemente oggetto di una intimidazione), di Fiammetta Borsellino e di tutti quelli che – pur sbagliando a volte – fanno antimafia onestamente. E si augura che l’unità fra persone perbene e piagate dal dolore possa prendere il sopravvento sulla menzogna, sui depistaggi e sulle impunità di Stato.
Luciano Mirone
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