L’aula di un Tribunale. Al centro Joseph K, vestito da galeotto, la stella di David cucita sul petto, chiuso in una gabbia perché accusato di crimini mai commessi. Per lui non esiste un capo d’imputazione, le sue colpe non esistono, eppure è accusato dei misfatti più atroci. Lui chiede quali sono le sue responsabilità, ma nessuna autorità gli risponde, se non attraverso la mistificazione e l’impostura.
La verità è che K è semplicemente colpevole di esistere. In quanto ebreo e quindi diverso e quindi da condannare. Ieri come oggi, oggi come sempre. Come un “negro”, come uno zingaro, come un omosessuale (categorie, anche quelle, detenute all’interno del Tribunale kafkiano), come un oppositore, come un Gesù Cristo (il protagonista ha le sembianze del Figlio di Dio) che non si adegua al sistema o che ne è vittima, e muore sulla croce o in un campo di concentramento o in una distesa immensa di acqua.
“Il processo-Il Caso k”, tratto dal romanzo incompiuto di Frank Kafka, è un’opera teatrale basata sull’allegoria e sulla metafora, sull’assurdo e sull’oniricità delle “maschere” che la rappresentano. A Catania il lavoro è stato messo in scena dal regista Elio Gimbo e dal Centro teatrale Fabbricateatro, con la partecipazione degli attori Antonio Caruso, Cinzia Caminiti, Alessandro Chiaramonte, Daniele Scalia, Barbara Cracchiolo, Gianluca Barbagallo, Alessandro Gambino, Babo Bepari, che hanno tenuto un ritmo incredibile per oltre un’ora e mezza.
La scena non è ambientata in un teatro tradizionale. Nella sala Giuseppe Di Martino di via Caronda 82, il palcoscenico – in omaggio alle sperimentazioni di un certo livello – è una pedana sopraelevata chiusa da un reticolato metallico, una sorta di gabbia, ubicata al centro, ai cui lati stanno una trentina di spettatori seduti su delle panche, che vivono immersi nella ferocia, nell’ingordigia, nell’alienazione, nel dramma dei protagonisti.
Quel reticolato è un simbolo. Di Auschwitz e dei Muri, del mar Mediterraneo e del Sinedrio, dei campi Rom e dei lager, di piazza De Mayo e del Palazzo della Moneda. E dentro quel reticolato si consuma il processo a K, che sta per Kafka, e che si identifica pienamente in questo romanzo redatto molti anni prima del nazismo, di cui, con la straordinaria chiaroveggenza dell’intellettuale raffinato, lo scrittore ne prevede gli orrori.
“Il processo” infatti viene scritto fra il 1914 e il 1917 (verrà pubblicato nel ‘25 grazie all’amico Max Brod, dopo la morte dell’autore che ne aveva chiesto la distruzione), ben 16 anni prima dell’avvento di Hitler. Eppure Kafka si rivela profetico. E anche se sconosce l’epilogo della “soluzione finale”, vive sulla propria pelle la condanna atavica nei confronti della razza ebraica, di cui lo scrittore praghese fa parte.
In quest’opera – grazie alla regia di Gimbo e alla versatilità degli interpreti – si coglie appieno il dolore kafkiano, non solo per la sorte tragica che tocca a quel popolo, ma per il destino atroce che riguarda tutti i “diversi” della storia, quindi “Il processo” non è una rappresentazione legata a una precisa datazione storica (anche se ambientata a quel tempo), ma un’opera universale, di cui Gimbo riesce a cogliere gli aspetti più misteriosi quando dice: “Ad Auschwitz ogni detenuto segnalava con una stella o con un triangolo la propria appartenenza, nei campi dove oggi ammassiamo giovani migranti africani, questa diversità risiede nel colore della pelle”. E ancora: “Ci furono tempi in cui gli uomini credettero di poter sopportare ogni dolore, ogni ingiustizia in nome di un paradiso – terreno e oltre – in nome di un riscatto per via di una fede o di un’utopia. Ci furono tempi in cui gli uomini guardando in cielo vedevano le stelle parlare, ne ricavavano messaggi divini da serrare nel pugno come diamanti. Poi il cielo ammutolì, rimase solo l’uomo con le stesse domande ma senza più risposte, nel palmo gli antichi diamanti si erano polverizzati in cenere, allora il dolore divenne inutile e l’ingiustizia gratuita; è tutta qui la tragicità dei grandi personaggi di Kafka, come Joseph K, perfetto alter ego di molti di noi”.
Un’opera che rappresenta il paradigma dell’essere umano, che malgrado il progresso, il benessere, le conquiste sociali, non è mai riuscito ad affrancarsi dalle più cupe delle sue colpe: il razzismo, il pregiudizio, l’avversione verso i diversi. Questo Franz Kafka ha voluto dirci oltre un secolo fa, e questo Elio Gimbo assieme al Centro teatrale Fabbricateatro vogliono dirci oggi.
Alla fine applausi sentiti verso gli attori e i collaboratori (scene di Bernardo Perrone, trovarobato di Mario Alfino, costumi e canti Cinzia Caminiti, luci Simone Raimondo, aiuto di sala Nicoletta Nicotra, auditore Salvo Foti). Lo spettacolo sarà replicato fino al 31 marzo. (Per informazioni tel. 347 3637379).
Luciano Mirone
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