L‘imprenditore di Belpasso, Mario Cavallaro, testimone di giustizia, ha denunciato all’Autorità giudiziaria prima, e a questo giornale poi, un gravissimo furto di mezzi prelevati dalla sua azienda (valore: 350-400 mila Euro) verificatosi nei giorni scorsi, alla vigilia della sua deposizione – avvenuta lo scorso 28 marzo – a un processo contro le cosche mafiose scaturito dalle sue denunce. “Sarà una coincidenza, ma ogni volta che c’è un’udienza, si verifica sempre qualcosa contro di me”, dice Cavallaro a L’Informazione. “Con questo ultimo furto non sono in condizione di lavorare”. L’imprenditore – nel corso della seconda puntata – racconta quello che ha dichiarato ai magistrati, ovvero “i pestaggi, i sequestri di persona, i tentativi della criminalità organizzata di impadronirsi della mia azienda”.
Cavallaro, dopo il primo sequestro di persona raccontato nella prima puntata, che succede?
“In quel momento posseggo delle quote societarie per delle operazioni che si stanno facendo nella zona di Belpasso. Quote societarie che detengo insieme a Tomasello e a Basilotta di Castel di Iudica, costruttore di Etnapolis, all’epoca dei fatti non così famoso come le indagini ci avrebbero fatto scoprire. Quando mi rendo conto che entrambi sono vicini a certi ambienti, prendo le distanze da entrambi”.
Basilotta come lo conosce?
“Avevo dei terreni di famiglia a Castel di Iudica. Poi lui comprò l’ex cava Costanzo di Belpasso e mi venne a cercare, perché mi servissi da lui per delle forniture di calcestruzzo e di materiale vario. Durante la costruzione di Etnapolis mi chiese un appoggio perché doveva posare dei mezzi. Veniva spesso in sede. E allora mi propose di fare delle cose insieme. In quel momento c’era una grande richiesta di villette nel territorio. Però, mi disse, queste operazioni, senza Tomasello, non si possono fare. Quando scoprii che Tomasello aveva amicizie con certi personaggi collegati con la criminalità organizzata, decisi di mettere le cose in chiaro”.
E poi?
“Sono stato costretto a cedere le mie quote societarie. Come? Attraverso il pestaggio davanti alla mia azienda. Mi hanno aspettato, sapevano che ero sempre l’ultimo ad uscire, si avvicinano con due motorini, mi puntano una pistola e mi dicono che nel cantiere delle villette in costruzione non ci devo mettere più piede. A quel punto, per evitare altre ritorsioni, decido di cedere le mie quote (una valeva 184mila Euro). Ma questo non basta”.
Perché?
“Gli Schillaci continuano a dire che a Piano Tavola non posso più stare. Nel 2012 vengo pestato nuovamente da sei persone. Scappo grazie all’arrivo provvidenziale di un cliente. Denuncio tutto ai Carabinieri. Il tenente Della Corte del Nucleo operativo di Paternò identifica gli aggressori. Nel 2008 le ritorsioni continuano. Dato che non voglio ritirare le denunce, né chiudere le azioni legali intraprese nei confronti di certe persone, una sera si presentano all’ingresso della mia azienda, mi buttano per terra, mi puntano la pistola al collo e mi prendono a calci. Quella volta non riesco ad identificarli a causa del buio. In quel periodo il gruppo di Mascalucia mi manda il proprio rappresentante, Mirko Casese: ‘Noi una cosa non possiamo sopportare: i vàddia (gli sbirri) e gli avvocati’, mi dice”.
Lei, come ha dichiarato in questa intervista, ha cominciato a fare l’imprenditore nel 1992, in un momento in cui la mafia spadroneggiava in Sicilia con l’avallo, spesso, delle istituzioni deviate. Perché denuncia dopo alcuni anni e non immediatamente?
“Con il mio lavoro avevo subìto delle richieste e degli avvicinamenti, ma non di questo tipo, nel senso che ero sempre riuscito ad evitare pagamenti, estorsioni e quant’altro. In questo caso, invece, non solo avevo la netta percezione di quello che volevano impormi (gli operai che dovevano lavorare, le ditte dove comprare i materiali, la loro presenza assidua con la pretesa che consegnassi loro pure le chiavi del capannone), ma anche del fatto che volevano farmi diventare uno strumento nelle loro mani. Questo è il motivo per il quale mi sono ribellato”.
C’è stato un momento in cui ha pensato di essersi messo in un gioco troppo grande?
“Dato che mio padre, impiegato in banca, era morto giovanissimo, fui assunto dallo stesso istituto di credito in cui lavorava. Entrai in banca giovanissimo, stetti una settimana, poi cedetti il posto a mio fratello: ho sempre voluto fare l’imprenditore. Non sono entrato in questo ‘gioco grande’ all’improvviso, man mano sono cresciuto e mi sono impegnato molto. Non avevo problemi di liquidità, non mi sono mai rivolto a usurai”.
Sì, ma negli anni Novanta, in cui Cosa nostra è fortissima, un imprenditore come lei come si muove?
“Fino a quando sei un piccolo artigiano (all’epoca facevo lavori di venti, trenta milioni di vecchie lire) riesci a vivere senza avere fastidi. L’imprenditore comincia ad essere sotto attenzione quando comincia ad avere molti dipendenti e volumi d’affari importanti. A quel punto ti avvicinano perché vogliono il controllo delle attività economiche nel territorio”.
Adesso che le hanno rubato i mezzi di lavoro, cosa farà?
“In questo momento non ho alcuna possibilità di lavorare. Devo dire che la Procura e i Carabinieri hanno svolto il loro lavoro in maniera eccellente e scrupolosa, però lo Stato a volte è troppo lento, troppo burocratico nell’aiutare i testimoni di giustizia e le parti offese nei processi di mafia. Io ricopro entrambi i ruoli. Ho dovuto vendere tutto il patrimonio di famiglia per oppormi a questi soprusi, ma adesso non so cosa devo fare?”.
Che messaggi lancia ai colleghi imprenditori?
“Che se non si vuole finire sottomessi, l’unica strada è la denuncia allo Stato. È una strada lunga e difficile, ma è l’unica percorribile”.
Luciano Mirone
2^ puntata. Fine
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