Le valigie legate con lo spago su un portabagagli di una vecchia Millecento. Era un pomeriggio d’autunno, il sole ancora caldo illuminava la strada e riverberava sull’Etna, in giro c’era poca gente. Avevo otto o nove anni ed eravamo fra gli anni Sessanta e Settanta. “Sono i giocatori della Belpassese che stanno partendo per una trasferta”, disse qualcuno. Una trasferta di cento, duecento, trecento, anche quattrocento chilometri che a me parevano molti di più: allora in Sicilia non c’erano le autostrade, le distanze erano molto dilatate e di conseguenza arrivare fuori provincia, spingersi fino alla Calabria, con le strade borboniche dell’epoca, piene di curve, di tornanti e di buche, era una grande impresa. Quelle valigie sul portabagagli mi facevano presagire i treni, le stazioni ferroviarie, le città lontane. Era il periodo dei mondiali in Messico, l’Inter di Herrera, di Mazzola e di Facchetti, il Milan di Rocco e di Rivera, la Juventus di Anastasi, il Cagliari di Riva. Ed era anche il periodo delle rivolte studentesche, dei tumulti di Reggio Calabria che non voleva il capoluogo a Catanzaro, del Catania in serie A.
Vivevo a Mistretta, un piccolo comune dei Nebrodi a mille metri d’altezza, dove il calcio si vedeva soltanto in televisione poiché all’epoca non esisteva la squadra del paese, il campo sportivo era in un luogo impervio, una spianata in mezzo alle montagne dove ogni tanto si effettuavano delle partite. Le sporadiche partitelle fra amici le facevamo in campagna o nelle stradine del paese, fra qualche asino legato a un albero e le mandrie di buoi che pascolavano attorno.
Ogni estate andavo a Belpasso, e qualche volta allungavo le vacanze nel periodo autunnale: fu proprio a Belpasso che scoprii il calcio vero, non quello della tivù ma quello praticato dai giocatori in carne e ossa.
Quando vidi quella Millecento perdersi verso l’orizzonte, per la prima volta ebbi la percezione che gli Herrera, i Mazzola, i Facchetti, i Rivera, gli Anastasi, i Riva fossero qui. Si chiamavano Prezzavento, Cantone, Nicoloso, Barbagallo, Motta, Signorello, Scandurra, Rizzo, Consoli, Pulvirenti, Previtera, Crisafulli, D’Agostino, Casale, Maugeri, Caruso, Li Pira, Aiello, Mazzaglia, e per la gente di Belpasso erano dei grandi campioni.
Ne ebbi contezza un giorno, quando con mio padre stavo per recarmi a vedere Catania-Milan. Il Catania in serie A, dopo l’esaltante promozione della stagione precedente, stava deludendo parecchio: dopo diverse giornate non era riuscito a segnare un solo gol. In classifica i rossoneri erano primi, i rossoazzurri ultimi. Eravamo già in macchina, quando si avvicinò un amico che gli chiese: “Dove stai andando?”. “Porto mio figlio al Cibali a vedere il Milan”. “Ca quale Milan! Il vero Milan è qui, si chiama Belpassese”.
Fu questa battuta ad indurci a rimanere a Belpasso. Quando arrivai al campo mi parve di sognare: le magliette biancoverdi, il tifo assordante, i fiori che i giocatori lanciavano prima della partita alle donne presenti sugli spalti, lo stadio con i gradoni in pietra lavica che attorniavano il rettangolo di gioco (cosa rarissima per un impianto di provincia), l’altoparlante sulla macchina che dal centro del campo diffondeva le formazioni, gli spogliatoi, la tattica disegnata alla lavagna, l’odore dell’alcol canforato, il suono dei tacchetti sul pavimento, l’ingresso in campo dei calciatori, i vapori della doccia che si mischiavano con il profumo del sapone, il tè dolcissimo e caldo del Club 84, la magia dei gol, l’abbraccio fra i calciatori.
Un giorno percepii cos’è la felicità quando Turi Martinez – mio cugino e segretario della Belpassese – mi fece una domanda a bruciapelo:“Ti va di venire in trasferta con la Belpassese?”. La trasferta era a Villafranca, nel versante tirrenico della provincia di Messina. Ne parlai a casa e dissero subito sì. Per diverse notti non riuscii a dormire. Ma la sera della vigilia cambiò tutto. Fatto non insolito in quel periodo: era già successo per Catania-Cagliari: “Sei troppo piccolo, un’invasione di campo,’na pitrata, ‘ncazzottu. Statti ‘a casa”. Il fatidico divieto per la trasferta di Villafranca era avvenuto mentre era riunito il parentado.
Nel pomeriggio avevo assistito ad una partita della squadra juniores, una brutta gara che il presidente Pippo Motta aveva vissuto molto male, al punto che negli spogliatoi, dopo una durissima reprimenda ai giocatori, si lasciò sfuggire una frase che a me parve particolarmente taumaturgica per far riflettere quei ragazzi, che nel frattempo si erano messi a piangere: “A mia non m’ha agghiunnari!”. Significato letterale: “Io non devo rivedere il giorno”. Significato sostanziale: “Io devo morire”. In verità non capii il contenuto di quella frase, ma siccome l’aveva pronunciata il presidente della Belpassese, percepii che si trattasse di una frase magica. Che pronunciai in maniera stentorea quando mio padre, la sera, al cospetto di tutti i parenti, disse che non mi avrebbe mandato a Villafranca.“A mia non m’ha agghiunnari!”. Ci fu un mezzo scandalo. La zia Angela (madre di Turi Martinez), donna timorata di Dio, fu scandalizzata e si fece il segno della croce: “A quest’età dice queste cose?”. Gli altri ebbero la stessa reazione.
La notte fu un continuo girarsi e rigirarsi nel letto nella speranza che quelle quattro parole (A-mia-non-m’agghiunnari) avessero fatto cambiare idea a mio padre. Contavo le ore, i quarti d’ora, le mezz’ore ascoltando i rintocchi dell’orologio della Chiesa Madre. Alle 7 il pullman (che nel frattempo aveva sostituito la vecchia Millecento) con i giocatori della Belpassese passò a rilevarmi da casa. Il trillo del campanello ebbe un suono crudele. Per un attimo immaginai cosa sarebbe accaduto se fra me e la felicità non si fossero frapposti i miei genitori. Ma fu solo un attimo. Poi tornai alla realtà, mio padre si affacciò e pronunciò quattro parole: “Mio figlio non può venire”. Osservai la scena dalle fessure. Da lassù vedevo il pullman e i giocatori a bordo, ed io che immaginavo di andare a conquistare l’orizzonte assieme a loro. L’autobus ripartì ed io lo accompagnai con lo sguardo fino a quando diventò un puntino nero che si perse lungo la strada.
Tornai a Mistretta. Ogni lunedì mi inorgoglivo nel leggere sul giornale le imprese della mia squadra del cuore. E in Promozione non c’erano più le trenta righe più tabellino della Prima categoria. C’erano intere pagine con tanto di foto e di titoloni che accrescevano il mio senso di appartenenza: la prima cosa che guardavo erano le immagini in bianco e nero. Fra tutti quei puntini neri che assiepavano le tribune del San Gaetano, mi sforzavo di individuare le facce. Sentivo le voci dei tifosi, le imprecazioni per un gol mancato, la gioia dopo un gol realizzato.
Il mio orgoglio per la Belpassese era dettato dalle discussioni fatte da mio padre che da lontano diceva sempre ‘Mappassu è ‘u megghiu paisi du munnu’, Belpasso è il più bel paese del mondo, o che individuava nel cognome di ogni giocatore la famiglia (e il pecco, ‘a ‘ngiuria) d’appartenenza. L’attaccante Francesco Nicoloso era il figlio di Biagio Nicoloso, in arte Vrasi Cafaranu, suo mitico compagno di caccia dai tempi dell’infanzia, l’allenatore Mario Morabito il figlio di Miciu ‘u carritteri, il difensore Antonio Vasta il nipote di padre Vasta.
C’era un senso di appartenenza ad un mondo che sentivi tuo. Il mondo contadino che dava ancora un forte senso di identità al paese, e di riscatto sociale.
Durante l’inverno aspettavo con trepidazione l’arrivo dell’estate per tornare al mio paese ed assistere al precampionato e alla rivalità fra i tifosi del Belpasso e della Belpassese. Andavo al campo per vedere gli allenamenti di entrambe le squadre. Osservavo i metodi e le innovazioni dei mister: il centravanti all’”ungherese” e i terzini fluidificanti erano stati portati da Mario Morabito e da Nuccio Marino (la mitica Olanda aveva Kroll, la Belpassese Musumarra e Virgillito).
Il training autogeno, l’interval training, i test ripetuti, lo stretching, la mista uomo-zona e tante altre innovazioni da Angelo Busetta – agli esordi come allenatore, uno dei migliori della Sicilia – e applicati da giocatori di cui lui scandiva i nomi dal centrocampo, Viscusoooo, Pagliarooo, Minnellaaa, Mironeee, Salafiaaa, Patitucciii, Bongiornooo, Sabatinooo, la-palla-di-prima/Apriamo-il-gioco-sulle-fasce.
E poi i tifosi: quelli del Belpasso legati alla tradizione, quelli della Belpassese all’innovazione e alla valorizzazione dei giovani. Personaggi, gli uni e gli altri, che fino a notte fonda stazionavano al Giardino Martoglio, al Club 84, in piazza Umberto e in via Roma, polemizzavano, si prendevano in giro, litigavano, facevano scommesse sui prossimi derby: Pippinu ‘u maddu (un soprannome che derivava dal suo cognome, Lombardo), Pippo Nicotra, Alfio Bellia detto ‘nzita; Nino Carbonaro, allora presidente del Belpasso.
Ma fra tanti, il più pazzesco era Turi Rapisarda detto Farfalla, grande tifoso del Belpasso e con un non comune senso dell’ironia. Fuori dallo stadio era un compassato dottor Jeckil, dentro diventava uno scatenato Mister Hyde, al punto da rompere un ombrello a partita: una volta, in pieno inverno, dopo il gol della sua squadra, si spogliò e rimase in mutande fino alla fine.
Quando da Mistretta ci trasferimmo a Patti (nella zona costiera del messinese) non ci fu bisogno di fare tanti chilometri per assistere alle partite della squadra del cuore, poiché sia la Belpassese che la Pattese militavano nel campionato di Promozione (per inciso: la Promozione dell’epoca equivaleva -almeno – ad una serie C di oggi). Nel frattempo frequentavo le scuole medie e siccome non facevo altro che parlare della Belpassese, con i miei compagni si instaurò un fortissimo antagonismo che si intensificò soprattutto nella settimana che precedette l’arrivo della squadra. Sette giorni di sfottò, di scommesse e di discussioni. Combattevo da solo, ma lo facevo con orgoglio. La squadra l’avevo vista in precampionato: una autentica macchina da gol. Domenica mi sarei preso le mie rivincite. Arrivò il giorno fatidico. Stadio gremito. Assistetti alla partita dal campo: adoravo carpire i segreti dello spogliatoio.
Mi piazzai dietro la porta dei padroni di casa, certo che l’incontro si sarebbe deciso soltanto lì. I miei amici andarono in tribuna, ogni tanto alzavo gli occhi e li salutavo con un malcelato e stupido senso di superiorità. Iniziò la partita. Dopo pochi minuti, ahimè, il pallone, invece di entrare nella porta giusta, si insaccò nella porta opposta. Il tifo era assordante. In mezzo ai canti e agli slogan, una parola a un certo punto si levò da un settore ben preciso: “Luciaaanooo”. Erano loro, i miei compagni, scandivano in coro il mio nome nei momenti di pausa per farmi pesare lo sfottò, per farmi sentire a disagio davanti a tremila persone, per affondare la lama. Dopo pochi minuti il secondo gol. E quel nome sempre più forte: “Luciaaanooo”. Volevo sprofondare. Morale della favola: alla fine del primo tempo Pattese 4-Belpassese 0. Per ben quattro volte il mio nome era risuonato crudelmente nelle tribune dello stadio. La partita finì col risultato del primo tempo. Lascio immaginare cosa avvenne nei giorni successivi.
Qualche altro anno di felicità e nel 1981 Belpasso e Belpassese si fusero in una sola società: il Club Calcio Belpasso. Il biancoverde e il biancoazzurro divennero “altro”. Lo stadio divenne “altro”, perché nel frattempo il Comune aveva deciso di assestare un altro duro colpo all’identità del paese: demolire quei meravigliosi gradoni in pietra lavica che attorniavano il rettangolo di gioco rendendo l’impianto armonioso e completo (il San Gaetano era definito da tutti “la Scala del calcio siciliano”). Dovevano fare la tribuna coperta. Perbacco! Per quindici anni il Club Calcio Belpasso giocò in campo neutro. Dopo ci consegnarono una tribuna di cemento, fredda, banale, senza le curve e le gradinate. Senz’anima.
Finì la bellezza, finì il derby. Che in questi giorni è stato riproposto attraverso una partita fra Vecchie glorie di Belpasso e Belpassese, che mi hanno riportato a quegli anni meravigliosi. Era un sogno. E’ un sogno. Sarà sempre un sogno.
Luciano Mirone
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