Non possiamo non essere d’accordo con quanto deciso dalla Corte di Cassazione di non consentire a Giovanni Brusca di scontare il resto della pena (ha già scontato 23 anni) a casa, come richiesto dai suoi legali. Il fatto che “’u verru”, il maiale, si sia pentito e abbia consentito ai magistrati di fare luce su tanti importanti retroscena che altrimenti, quasi certamente, sarebbero finiti nell’oblio, non cancella le nefandezze che il boss di San Giuseppe Jato ha perpetrato nei confronti di tanti esseri umani, a cominciare dal piccolo Giuseppe Di Matteo e dal giudice Giovanni Falcone, assieme alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Sopra: Giovanni Brusca

Come dimenticare quel che Brusca fece a un bambino di undici anni come Giuseppe Di Matteo, colpevole di essere il figlio del pentito Santino Di Matteo, che stava svelando i retroscena di quella strage, eseguita da Cosa nostra ma voluta, secondo i magistrati, da altre entità che – siamo nel periodo delicato del “dopo” Capaci, quando certi equilibri non sono ancora consolidati – non potevano e non dovevano essere nominate. Lo prelevarono all’uscita di scuola, quel bambino, e lo tennero segregato per mesi in un casolare, trattandolo alla stregua di un “canuzzu” (come veniva definito dal gruppo che lo aveva nascosto) per fargliela pagare a “quell’infame” di suo padre. Quando il bambino era allo stremo delle forze, Brusca si incaricò di ucciderlo per strangolamento e di scioglierlo nell’acido. Una cosa orrenda che va oltre ogni macabra immaginazione.

Come dimenticare la strage di Capaci, quando Brusca pigiò il telecomando per fare esplodere il tritolo destinato a Falcone. Un tritolo che non aveva solo il fine di eliminare un grande magistrato, ma anche di “fare la guerra allo Stato per poi farci la pace”, come era nelle intenzioni di Totò Riina che aveva voluto quell’attentato (ripetiamo: non da solo), al quale, con una sequenza impressionante, sarebbero seguiti seguiti via D’Amelio, Roma e Firenze.

Una strategia della tensione per indurre le istituzioni a “trattare”, dopo le pesanti pene inflitte alla mafia con le condanne del maxi processo. Ecco allora la “Trattativa” Stato-mafia, altra parola impronunciabile fino a pochi anni fa. Se oggi quel tabù si è rotto lo dobbiamo al coraggio di magistrati come Nino Di Matteo, Antonio Ingroia e gli altri pm del processo Trattativa (Del Bene, Teresi e Tartaglia) che hanno dimostrato ulteriormente che la mafia va oltre, molto oltre, Giovanni Brusca. In ogni caso Giovanni Brusca deve rimanere in carcere.

Luciano Mirone