Va usata molta cautela nel giudicare le parole di Claudio Fava sul fallito attentato di cui la notte tra il 17 e il 18 maggio 2016 fu vittima l’ex presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci. Specie quando il presidente della commissione antimafia alla Regione Sicilia – che ha redatto una relazione di circa 100 pagine approvata all’unanimità – dichiara: “L’ipotesi più plausibile è quella della simulazione”.
Una frase che, ad una lettura superficiale dei resoconti di cronaca, porta a ritenere che l’attentato se lo sia organizzato lo stesso Antoci. Non è così. E Fava lo chiarisce nel passaggio successivo, quando afferma che l’ex presidente del Parco dei Nebrodi potrebbe essere stato “strumento inconsapevole di una messa in scena”. Parole pesanti. Perché parlano esplicitamente di un finto attentato organizzato da qualcuno, su cui in questi tre anni nessuno ha mai dato risposte, compresa la magistratura che ha archiviato l’indagine.
Ed ecco allora che sorgono spontanee due domande: chi avrebbe allestito questa “messa in scena” e perché. E’ questo il punto di snodo del caso Antoci.
Questo la relazione non lo dice, anche perché l’antimafia regionale non dispone degli stessi strumenti della magistratura per chiarire queste “domande senza risposta” o queste “contraddizioni emerse e non risolte”.
Ma è proprio su certi punti oscuri che la relazione si concentra. Non per accusare Antoci, come detto, ma per mettere in rilievo il comportamento “contraddittorio” della scorta e delle forze di polizia intervenute subito dopo. Infatti Fava parla di “criticità investigative registrate”, anche a causa di una serie di “testimonianze divergenti”.
Nel primo caso il riferimento sembra diretto a chi ha svolto le indagini sul fallito attentato (l’auspicio, dichiara Fava, è che “su questa vicenda si torni ad indagare per un debito di verità che va onorato. Qualunque sia la verità”). Nel secondo a chi aveva il compito di tutelare l’incolumità dell’ex presidente del Parco dei Nebrodi.
Il quale, non dobbiamo dimenticare, è stato l’autore di un Protocollo di legalità contro la mafia preso a modello da molti e diventato legge nazionale.
È sulle dinamiche dei fatti accaduti – dice Fava – che bisogna concentrare l’attenzione, riportarsi a quella notte di maggio di tre anni fa, quando Antoci stava tornando nella sua casa di Santo Stefano di Camastra (Me), dopo un incontro a Cesarò, e a un certo punto, mentre lui sonnecchiava, la sua auto blindata (con scorta di terzo livello) venne bloccata lungo la strada da alcuni massi e vennero sparati alcuni colpi di lupara contro la vettura da persone rimaste ignote che poi riuscirono a scappare. Sono quei momenti cruciali, secondo il presidente della commissione antimafia all’Ars, che bisogna chiarire. Con un’altra indagine. “Qualunque sia la verità”.
Luciano Mirone
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