La casa rossa si trova in cima al paese, ai piedi del vulcano e ai lati di una stradina scoscesa che, dalla piazzetta principale, si incrocia con altre viuzze, costeggia vigneti, piante di fichidindia, casette bianche, e degrada verso il mare.
In questa dimora Ingrid Bergman, nella primavera del 1949, risiedette per quattro mesi per girare Stromboli, il film diretto da Roberto Rossellini col quale, proprio qui, iniziò una intensa storia d’amore (poi durata molti anni), ritenuta allora scandalosa dai giornali di tutto il mondo, perché intrattenuta da due persone sposate.
I retroscena sono fin troppo noti: fino a poche settimane prima, il regista stava con Anna Magnani, con la quale era arrivato all’apice del successo con i grandi film del neorealismo italiano che avevano con-fermato le straordinarie doti artistiche di entrambi: lui regista colto e raffinato, lei interprete sensibile e passionale. Un sodalizio artistico e sentimentale inscalfibile, almeno in apparenza.
E invece…
Invece un giorno il destino si presentò inaspettatamente sotto forma di una lettera. L’autrice era Ingrid Bergman (allora sposata con Petter Lindstrom), la località dalla quale scriveva Hollywood, dove ormai era un’attrice affermata: “Caro signor Rossellini, ho visto i suoi film Roma città aperta e Paisà e li ho apprezzati moltissimo. Se ha bisogno di un’attrice svedese che parla inglese molto bene, che non ha dimen-ticato il tedesco, non si fa quasi capire in francese, e in italiano sa dire solo ti amo, sono pronta a venire in Italia per lavorare con lei”.
Un fulmine a ciel sereno. Che in un attimo ridusse in cenere il rapporto fra lui e la Magnani creando i presupposti per una bellissima e trasgressiva (allora ritenuta tale) storia d’amore tra il regista italiano e la protagonista di Io ti salverò di Alfred Hitchcock.
Quella della Bergman non era solo una lettera di lavoro. Era una dichiarazione d’amore. Che Rossellini, confermando il temperamento di maschio latino, colse immediata-mente, mettendo in crisi la storia con la Magnani.
Nannarella era innamoratissima di Roberto. La sua sofferenza nel vedere il suo uomo sparire da un giorno all’altro si acuiva nel leggere i rotocalchi che riportavano, con tanto di foto, la love story fra il regista italiano e la famosa attrice svedese.
Una sofferenza che diventò rabbia quando, a coronamento del fidanzamento, Roberto e Ingrid risiedettero per quei quattro mesi a Stromboli, mentre i giornalisti di tutto il mondo piombarono nell’iso-la per immortalare l’avvenimento.
A cogliere l’attimo furono i giovani della Panaria film, “mitica” casa cinematografica con sede a Palermo (formata nel 1946 dal prin-cipe Gianfranco Alliata, con Quintino di Napoli, Giovanni Mazza, Pietro Moncada di Paternò, Renzino Avanzo e Fosco Maraini) specializzata nei documentari subacquei (primi nel loro genere) , ma con ambizioni e progetti cinematografici a livello nazionale e internazionale. I soldi c’erano e le idee pure, e anche l’entusiasmo, mancava l’esperienza. La Panaria volle sfruttare il momento propizio per proporre alla Magnani la realizzazione di un film da ambientare in un’altra isola dell’arcipelago eoliano: Vulcano.
Produrre una pellicola con Nannarella, mentre la Bergman era impegnata nell’isola di fronte, con Rossellini tra i due fuochi, significava suscitare la curiosità della stampa di tutto il pianeta, con il vantaggio di pubblicizzare la pellicola molti mesi prima della sua uscita. E se l’opera di Rossellini doveva intitolarsi Stromboli, quella della Panaria doveva chiamarsi Vulcano, con la direzione del regista tedesco William Dieterle.
L’intuizione fu giusta, almeno sulla carta. I giornali ci sguazzarono alla grande: “La guerra fra i vulcani”, titolarono. Mesi convulsi. Basti pensare che per carpire i segreti di Stromboli (trama, variazioni di sceneggiatura, data di uscita del film e tanto altro), quelli della Panaria ricorsero a incredibili stratagemmi. Non riuscirono ad ottenere granché, Rossellini lavorava senza un copione, prendeva appunti estemporaneamente, spesso improvvisava, come quando ebbe l’idea di riprendere dal vivo l’eruzione del vulcano e la pesca del tonno, al punto da indurre la critica a definire Stromboli un classico del neorealismo, considerandolo fra i cento film italiani da salvare, dunque gli “infiltrati” della Panaria non ottennero grandi segreti.
Ma in compenso (malgrado avessero iniziato le riprese dopo) riuscirono ad anticipare di ben otto mesi l’uscita del film rispetto a quello di Rossellini: in prima nazionale Vulcano fu proiettato il 2 febbraio 1950, Stromboli l’8 ottobre dello stesso anno.
Il film con la Magnani, al botteghino andò male. Per Stromboli andò meglio, almeno in Italia. Ma in America fu un fiasco, sia per la campagna negativa promossa da Hollywood che non perdonava alla Bergman un “tradimento” così clamoroso a vantaggio della produzione italiana (all’epoca all’apice del successo), sia per un celebre comizio del senatore del Colorado, Edwin C. Johnson, che bollò la Bergman come pubblica concubina, e sia per la decisione della casa di produzione Rka di ridurre la pellicola di trenta-sette minuti, portandola a una durata complessiva di un’ora.
Ma torniamo a quei giorni. Vediamo cosa successe alla coppia Rossellini-Bergman che improvvisamente fece esplodere l’interesse della stampa internazionale sulle quasi sconosciute Isole Eolie. La relazione della coppia è iniziata da poco. L’attrice svedese sbarca in quest’isola selvaggia e bellissima, dove “non esistevano alberghi e telefoni, mancava sia l’acqua corrente che la luce elettrica; le mosche e i moscerini sciamavano ovunque”. Eccola camminare a piedi con il cane regalatole dal regista, un bulldog di nome Stromboli, o in groppa a un asinello per i sentieri scoscesi dell’isola.
Di quella pellicola, la casa rossa, è una delle poche testimonianze rimaste, ma è una testimonianza dimenticata, a dispetto della lapide che, incastonata nel muro, ricorda l’avvenimento. Basta osservare la facciata (il riferimento riguarda i giorni in cui siamo stati nell’isola; dell’epoca successiva non conosciamo l’epilogo): metà il risso rosso sbiadito dalla pioggia e dal vento, metà la gradazione rosso fuoco di una recente mano di vernice.
Il contrasto fra il mito e la realtà, fra la memoria e l’oblio, è il colore di questa villetta di quattro stanze con salottino, giardino e alberi di limone, che domina l’arcipelago delle Eolie. La dimora che vide nascere uno degli amori più celebri della storia del cinema, che avrebbe potuto far sognare tantissimi visitatori se fosse diventata un museo del film Stromboli, oggi è l’oggetto di una contesa fra parenti che la abitano un mese l’anno e non riescono a mettersi d’accordo neppure sul colore da dare alla facciata (almeno, ripetiamo, fino a quando noi siamo andati stati sull’isola per raccontare i retroscena del film. Del dopo non sappiamo).
Difficile trovare altre testimonianze. Se ci si informa, la gente del luogo indica un paio di nomi e null’altro. Che fine hanno fatto gli stromboliani ingaggiati come comparse e figuranti? Molti sono morti, altri sono emigrati in America. Nel film erano centinaia. Il protagonista maschile, il pescatore di Salerno, Mario Vitale (scoperto da Rossellini, ma lanciato un anno prima da Luciano Emmer in Domenica d’agosto) è morto nel 2003.
Oggi le persone alle quali chiedere un ricordo, un aneddoto, un piccolo cimelio, si possono contare sulle dita di una mano. Nelle case immerse nel verde vivono napoletani, pugliesi, settentrionali, ma pochi eoliani: quelli rimasti, in gran parte giovani, sanno poco e niente. Eppure qualcuno riusciamo a trovarlo.
Davanti alla spiaggia nera di Ficogrande, suggestivo set naturale di fronte all’isoletta di Strombolicchio, incontriamo Domenico Russo, un ex insegnante elementare, l’unica persona che conosce i retroscena della casa rossa. “All’epoca l’isola era servita solo da una nave a vapore della società Eolie. Attraccava una volta la settimana, poi ripartiva verso Napoli. Quando arrivava, tutta Stromboli si dava appuntamento al molo per vedere i forestieri. Scendeva una faccia nuova e la gente si domandava: chi è? Un giorno sbarcarono due persone, incontrarono un ragazzino e gli chiesero: ‘Ci sai dire dove possiamo trovare un hotel?’. Il ragazzino non rispose. ‘Dove possiamo dormire?’. Altro silenzio. Mi avvicinai e dissi: ‘A Stromboli non ci sono alberghi. C’è però una signora che af-fitta delle camere’. Li accompagnai da donna Rosa, mi intrattenni per qualche minuto e sentii i loro discorsi: ‘Ma come fa Rossellini a girare il film? Dove facciamo dormire la Bergman?’. Non sapevo se babbiavano o se parlavano seriamente. Poco dopo capii che erano venuti a Stromboli per organizzare la parte logistica del film. Erano funzionari della società di produzione americana Rko. ‘Ve la do io la casa, non voglio un soldo’. Li portai nella casa rossa che apparteneva a mia sorella Maria. I due funzionari la trovarono adatta per l’attrice”.
Ecco cosa dice la Bergman ad Alan Burges nella sua biografia: “A fianco della casa venne costruito un apposito edificio con bagno, gabinetto e bidet. Gli abitanti dell’isola non avevano mai visto simili congegni. Un imbuto inserito nel tetto del bagno serviva da doccia; quando ero pronta per lavarmi, lanciavo un urlo e un uomo che si tro-vava sul tetto versava secchi d’acqua marina lungo il tubo”.
A riscaldare l’acqua provvedevano le due cameriere di fiducia. “Per l’isola”, prosegue Domenico Russo, ”fu l’avvenimento più straordinario del dopoguerra. Mi colpì l’entusiasmo del parroco, don Antonino Di Mattina, che non solo ignorò lo scandalo fra la Bergman e Rossel-lini, ma ogni giorno si recava sul set per assistere alla lavorazione, al punto da interpretare una piccola parte. Il prete fu il primo ad intuire i grandi benefici che il film avrebbe apportato al turismo isolano. Pochi gli credettero, il tempo gli dette ragione”.
Gaetano Famularo ha superato da un pezzo i novant’anni, è uno dei pochi stromboliani rimasti. Il suo nome appare perfino nei siti Inter-net. In quelli di lingua inglese viene indicato come The man with the guitar, l’uomo con la chitarra, colui che intonava canzoni sulla spiaggia, mentre Karin (Ingrid Bergman) viveva i suoi travagli umani dopo essere fuggita da un campo di concentramento.
Per gli abitanti dell’isola, Gaetano Famularo è una leggenda vivente, un personaggio con una storia che viene raccontata perfino nei libri. Non esiste giornalista italiano o straniero che, sbarcato a Stromboli, non vada a trovare The man with the guitar. Trascorre le sue giornate seduto su un muretto, il bastone poggiato sulle gambe, un sorriso dove spiccano due soli denti, tanti ricordi che affollano la sua mente.
Al nome della Bergman gli si illuminano gli occhi: “Una donna sensibile e generosa. Mentre giravamo il film, a Ficogrande arrivò un pescatore. Era stato a tonni, aveva i vestiti laceri ed era disperato. L’attrice chiese in inglese: ‘Perché quell’uomo piange?’. Rossellini si informò. ‘Gli scogli hanno distrutto la sua rete di mille metri’. ‘Quanto costa?’. ‘Ventimila lire’. L’attrice tirò fuori un assegno, lo compilò e lo regalò al pescatore”. Non fu l’unico omaggio che la Bergman fece agli abitanti di Stromboli. Nella sua agenda l’attrice annotava: cinquantamila lire alle due chiese; settantamila per gli abiti di alcuni bambini; quindicimila per il ricovero di una cameriera; diecimila per una donna ammalata; trenta-mila per la visita oculistica di un bambino, e così via.
‘U zù Tano si alza dal muretto e si avvia verso casa. Vive in due stanzette piene di oggetti. Ognuno legato ad un ricordo: i quadri ad olio, di cui è autore, raffigurano il vulcano, il ritratto in bianco e nero della moglie, le decine di foto che lo ritraggono mentre suona o parla con i giornalisti di mezzo mondo; un cucinino pieno di stoviglie.
Si siede e comincia a sgranocchiare un dolce di pasta frolla, poi alza l’indice con orgoglio: “Gli altri compaesani fecero le comparse, io feci parte del cast. Non so se mi spiego”. Mastica un altro pezzetto di dolce che accompagna con un bicchiere di Malvasia. “Come ci riuscii? Con un po’ di furbizia e di esperienza. La mia vita è tutta un’avventura. In oltre novant’anni ho fatto il pescatore, il muratore, l’agricoltore. Durante il fascismo fui mandato in Albania dove mi ammalai di malaria. Quando tornai alle Eolie trovai una situazione di estrema indigenza. Nel 1956, assieme a mia moglie, decisi di emigrare in America. Partimmo con l’Andrea Doria. Una notte, mentre eravamo a bordo, la nave naufragò a causa della collisione con la Stockholm. Eravamo in pigiama, ci gettammo in mare. Fummo ripescati dall’equipaggio francese Île de France, e risarciti con mille dollari a testa. A New York feci il falegname. Ma il sogno non durò molto, mia moglie soffriva il clima degli Stati Uniti. Tornato a Stromboli, mi specializzai ad accompagnare i tu-risti fino alla cima del vulcano. Ho guidato molte persone importanti. Quando venne Rossellini gli feci da uomo di fatica: trasportavo sulle spalle il gruppo elettrogeno che serviva per illuminare la montagna. Allora recitavo nella compagnia teatrale dell’isola, così gli chiesi: ‘Signor Rossellini, mi fa fare una parte nel film?’. Detto, fatto. Intonavo una canzone sui cornuti: Gran pezzu di curnutu/che tu a piscari vai/e la mugghieri tua/li corna ti li para”.
‘U zù Tano comincia a cantare, dondola le mani e ogni tanto fa il segno delle corna. “Un periodo bellissimo. Sarà stata una coincidenza, ma furono i mesi più pescosi dell’ultimo mezzo secolo. Che tempi!”.
Salutiamo L’uomo con la chitarra e ci mettiamo alla ricerca di qual-che altra traccia del film. Dopo aver parlato (invano) con decine di persone, incontriamo un giovane. Afferma di essere il nipote della sarta che cucì l’abito da sposa di Karin. Ci dice che la donna “gestiva la locanda di fronte alla casa rossa”. Ci rechiamo alla locanda, dove ap-prendiamo che la sarta Giovannina Alaimo è morta da diversi anni. Ma la macchina da cucire esiste ancora? “L’abbiamo venduta”. A chi? “Alla proprietaria dell’unica libreria di Stromboli”.
Ci rimettiamo in cammino per dare la caccia ad un piccolo tesoro che ha le sembianze di una vecchia Singer. Entriamo nella libreria e la troviamo. È al centro, lucida, bella, sistemata in evidenza. È la mitica macchina costruita all’inizio del Novecento, quella che ha fatto epoca, con l’inconfondibile logo dorato sul fondo nero, il tavolinetto in legno, i cassettini pieni di aghi e spagnolette, il pedale e le decorazio-ni in ghisa. “L’ho comprata per pochi soldi”, afferma Chiara Bettazzi, una toscana trapiantata nell’isola. “Quando l’acquistai non sapevo che aveva cucito il vestito della Bergman. Oggi quanto può valere?”.
Luciano Mirone
(tratto dal libro Il set delle meraviglie – L’Informazione editore)
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