Da quindici mesi è tornato a fare il parroco di Belpasso (Catania), dopo esserci stato dal 1988 al 1995: sette anni vissuti intensamente ma anche molto contrastati per dei motivi che lui, Mons. Gianni Lanzafame, spiega in questa intervista, mentre oggi la città festeggia la Patrona Santa Lucia, e i carri dei quartieri – che raffigurano la vita e la morte della Martire siracusana – sono in procinto di essere aperti, e le luci inondano la piazza e la via Roma e la gente passeggia gustando i giorni della festa.
Ci vediamo all’interno della Chiesa Madre dedicata a Maria Santissima Immacolata, alla quale Mons. Lanzafame è molto devoto, al punto da averle dedicato, da grande studioso di mariologia, diversi libri. E’ un Mons. Lanzafame diverso rispetto a quando andò via da Belpasso: allora era più istintivo, oggi è più riflessivo, ma comunque sempre ironico, forbito nel linguaggio, e portato a dire sempre quello che pensa.
Quando lo incontriamo è come rivedere un vecchio amico: siamo talmente abituati a definirlo Padre Gianni che non ci viene di chiamarlo Monsignore: questa chiacchierata ne è la dimostrazione lampante.
Padre Gianni, lei è tornato a Belpasso quindici mesi fa, dopo una lunga parentesi di 20 anni a Siviglia, in Spagna, e di 5 tra la cattedrale e la collegiata di Catania. Dopo un quarto di secolo che comunità ha ritrovato?
“Un quarto di secolo influisce nella vita di una persona, di una famiglia e di una comunità parrocchiale. Ho trovato tante cose diverse. Il paese non è assolutamente quello che avevo lasciato: la persona cambia, i valori cambiano, ma soprattutto cambiano gli eventi: molti esseri umani non ci sono più perché sono morti, o magari perché hanno cambiato modo di vivere con delle scelte diverse. La parrocchia l’ho trovata in una situazione totalmente diversa a come l’avevo lasciata alla fine di giugno del 1995. Dopo di me ci sono stati Mons. Francesco Mio (recentemente scomparso) e dagli inizi degli anni Duemila, fino al 27 settembre 2018, Mons. Giuseppe Calabrò.
C’è stato un diverso modo di vivere il ministero sacerdotale e pastorale: ognuno di noi è irripetibile, ognuno di noi ha il proprio retaggio, la propria cultura, la propria formazione. Io ho cercato di essere me stesso, anche se il padre Gianni che negli anni Novanta lasciò Belpasso non è il padre Gianni che è tornato oggi: essere stato per dieci anni con i più poveri a Siviglia, nell’esercizio della carità, nella Chiesa di San Giorgio alla Carità, mi ha cambiato tantissimo. La nostra festa di Santa Lucia deve essere vissuta nell’unità delle cinque parrocchie, nel vero esercizio della carità. Molte persone sono qui, altre hanno preferito non ritrovarsi con il proprio parroco e seguire il mio predecessore, Mons. Calabrò, a Paternò: è giusto che ognuno faccia la propria scelta”.
È un po’ polemica questa frase?
“Non credo che sia polemica. È la realtà dei fatti. Quando sono tornato a Belpasso non c’era addirittura chi apriva la chiesa, poiché le tre signore che stavano al servizio a tempo pieno di Mons. Calabrò sono andate via: nonostante avessi chiesto loro di continuare, hanno preferito lasciare. Fortunatamente ricordavo l’allocazione degli interruttori della luce, per cui siamo riusciti a dire la messa. Molti ministri dell’eucaristia non hanno continuato a dare la comunione agli ammalati. Molte persone che servivano la messa hanno voluto continuare un’altra forma: liberissimi di fare quello che vogliono. Non è polemica, assolutamente, è constatazione”.
Ha parlato della comunità parrocchiale. E la città come l’ha trovata?
“Ho trovato un sindaco e una giunta molto giovani. Per le celebrazioni in cui ho chiesto la loro presenza o il loro intervento, non posso dire che sono stati assenti, anzi. Se in qualcosa sbagliano è anche frutto dell’inesperienza, però posso dire che hanno molta buona volontà”.
E lei, in questo quarto di secolo, come ritiene di essere cambiato?
“L’esperienza della vita sacerdotale, come detto, mi ha cambiato moltissimo. L’esperienza in Spagna è stata totalmente sconvolgente. In Italia il cristianesimo viene vissuto all’acqua di rose, lì si vive in una forma impegnata, sostanziale. In Spagna c’è la famiglia impegnata nella testimonianza cristiana e sociale: la domenica il papà, la mamma e i figli vanno a messa sia per preparare una liturgia, un altare di culto, una celebrazione: l’impegno è totale. È una comunità che prega, che crede e che agisce”.
Come ricorda il periodo di Belpasso, quando andò via con una punta di amarezza?
“Chiariamo: non me ne sono andato, da qui non me ne sarei mai andato. Sono stato invitato a lasciare Belpasso, perché ero stato nominato parroco in cattedrale, dove precedentemente ero stato canonico e vice parroco. Se il Vescovo ti dice ‘devi andare in cattedrale’, non puoi rifiutare. A Belpasso era stato creato un ambiente di famiglia. Ricordo quel periodo con entusiasmo, avevo trentasei anni, con il piacere di lavorare e di fare. E abbiamo fatto. Non abbiamo solamente restaurato la chiesa o il patrimonio artistico, abbiamo creato un ambiente di comunità in cui tutti si ritrovavano”.
Questa è la seconda festa di Santa Lucia che vive da quando è tornato a Belpasso.
“L’anno scorso in fretta e furia abbiamo allestito la festa, immettendo delle innovazioni; si è svolta la processione dell’Immacolata (che era stata abolita), è stata ripresa la notte di preghiera con il Santissimo (abolita anche questa); in quindici mesi abbiamo cercato di fare il possibile perché certe cose ritornassero”.
Cosa possiamo dire sulla festa di Santa Lucia di quest’anno?
“C’è stata una grande difficoltà nel raccogliere i soldi per organizzare i festeggiamenti. E’ un periodo di crisi, la gente vuole la festa, ma collaborare pesa un po’ a tutti, per cui ringrazio il comitato di Santa Lucia che, malgrado l’acqua e il vento, ha passato al setaccio il paese per potere raccogliere fondi, perché il Comune dà sempre meno risorse. Abbiamo cercato di ridurre le spese, affinché non manchi il necessario a chi ha di bisogno”.
E’ una comunità, Belpasso, molto legata alla propria Patrona.
“Tutti i paesi sono legatissimi al proprio Patrono: nel caso di Belpasso ne è testimonianza la grande fede durante la Tredicina, che si svolge ogni mattina alle cinque dal 30 novembre al 12 dicembre. Quella partecipazione, quella messa, quella comunione, quel freddo a cui si va incontro significano credere tanto nell’intercessione di Santa Lucia”.
Lei è di Catania, con un legame fortissimo per la sua città e per la Spagna. Eppure con Belpasso vive un rapporto particolare. Perché?
“Amo profondamente la mia Terra, sono innanzitutto un siciliano. In questi anni con i libri, con le mostre, con le conferenze ho fatto conoscere le nostre tradizioni, che non sono meno belle di quelle spagnole, ragion per cui ho difeso la nostra cultura, le nostre manifestazioni, il nostro patrimonio. Avevo chiesto di tornare a Catania per motivi di salute e anche per stare un po’ più vicino alla mia famiglia: quando l’Arcivescovo mi ha proposto di tornare a Belpasso, sono stato ben lieto di venirci, in quanto amo questo paese”.
Ci sono stati degli input da parte dei parrocchiani presso l’Arcivescovo Gristina per farla tornare a Belpasso?
“Non so rispondere. E’ una domanda che non va fatta a me. So che l’Arcivescovo mi ha chiesto di venire ed eccomi qui”.
Lei nel 1989 fu tra i fondatori, insieme al sottoscritto (che ne fu presidente), del Movimento 89, un’associazione di Società civile, malvisto dagli amministratori locali per la visione di una politica del cambiamento e non della stagnazione. Cosa ricorda di quel periodo?
“Che si cercava di interagire attivamente con la comunità senza fare politica con la p minuscola come viene intesa da taluni. Forse da qualcuno, anche da parte di sacerdoti che non ci sono più, non fu capito assolutamente, né la mia partecipazione, né quello che si faceva: ricordo perfettamente tutto, l’atto notarile, il nostro impegno che non era finalizzato a far male a qualcuno, ma, al contrario, a valorizzare questa comunità”.
Pensa che il suo impegno all’interno di quel movimento abbia influito in certe dinamiche negative che si sono venute a creare nei suoi confronti?
“Senza dubbio. Io a Belpasso ero venuto giovane, in un contesto in cui i parroci erano sempre stati di Belpasso. Arriva un ragazzo dalla città, partecipa a un movimento d’avanguardia come quello e succede il terremoto”.
Cosa pensa di potere fare in futuro per questa comunità?
“Pregare perché non venga mai meno l’entusiasmo da parte mia, e soprattutto chiedere al Signore che mi conceda un po’ più di salute per dedicare le forze che ho, fino alla fine, al bene di questa comunità, soprattutto perché sia una comunità che veramente sia un passo bello, un bel passo di azione, di cammino verso i valori intramontabili della fede, della speranza, della carità e dell’impegno sociale”.
Luciano Mirone
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