Una pistola con colpo in canna detenuta da un ragazzo di vent’anni, che in un garage di Belpasso (Ct) conserva anche quattro caricatori tutti corredati dalle relative munizioni, un bilancino di precisione e una dose di cocaina, può essere ritenuta una discreta notizia di nera, ma se il fatto viene guardato da un altro punto di vista, può essere considerato lo spaccato di una comunità che non riesce a cogliere fino in fondo certi segnali provenienti da un mondo che affiora con le sue problematiche e i suoi drammi sociali.
Belpasso non è più solamente il paese della festa di Santa Lucia, di Nino Martoglio, di Lorenzo Bufali, della distruzione e della ricostruzione, del teatro, del professore Sambataro e di tante altre peculiarità di cui va giustamente fiero.
Belpasso col tempo è diventato anche “altro”: il particolare della pistola (una Colt calibro 45) con matricola abrasa, “pronta per l’uso” e messa a disposizione del “gruppo degli amici”, può essere considerato isolato, oppure può costituire l’ulteriore segnale di un paese cambiato da un pezzo.
Se quella pistola destinata a non meglio precisate situazioni (i carabinieri parlano di rapine e di scorribande) fosse stata gestita da un adulto, la notizia non sarebbe stata così carica di significati, ma il fatto che fosse nelle disponibilità di un ragazzino e di altri coetanei spiega tanto. Un ragazzino di Belpasso, fino ad alcuni decenni fa, nel suo garage poteva conservare un pallone o al massimo un calendario di donne nude, non una pistola con quelle caratteristiche.
Poi fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta cambiò tutto. Successe quando Cosa nostra allungò i suoi tentacoli in una zona in cui la mafia era considerata un’astrazione, una entità lontana. Il fenomeno veniva ostinatamente negato, e però il tessuto sociale teneva: certi luoghi come la villa comunale, specie nei giorni festivi, erano il ritrovo di ragazzi e di famiglie in festa.
Negli anni Novanta arrestarono il Malpassoto e il suo esercito di affiliati che aveva messo sotto controllo qualsiasi cosa, dalla Banca popolare all’ultimo negozio del paese. In quel momento si pensò che tutto potesse tornare come prima, fu una pia illusione, poiché quando si aprirono gli occhi ci si accorse che il degrado non dipendeva solo dalla mafia, ma da un male oscuro che continuava a divorare la comunità: la politica (a volte cattiva, a volte insulsa) e la totale indifferenza e complicità della gente che continuava a votarla.
Nel territorio non si coltivarono più soltanto i fichidindia, ma le case abusive (centinaia, con l’auspicio della politica) abitate da una tipologia di persone con un’identità del tutto differente da quella originaria. Un fenomeno così complesso, se si affronta col giusto approccio può creare una sana integrazione tra culture, ma se lo affronti con le vecchie categorie rischi di fartelo scappare di mano.
Intanto il paese si desertificava, e certi luoghi di ritrovo diventavano il triste punto di riferimento di ragazzi sbandati dediti ad attività non sempre lecite, la gente continuava ad eleggere i soliti noti che invece di realizzare strutture per i giovani, spendevano centinaia di migliaia di Euro per allestire “presìdi di Polizia municipale” senza Polizia municipale.
Oggi le vittime principali di questo degrado sono i giovani, sempre più in balia di quell’altra Belpasso fortunatamente minoritaria ma che rischia inesorabilmente di allargarsi a macchia d’olio, in fondo vittima anch’essa di un meccanismo perverso che al bene comune preferisce l’orticello. E’ triste, ma è così. Lo scriviamo da anni, ma alla gente sta bene così.
Nella foto: il giardino pubblico Nino Martoglio di Belpasso
Luciano Mirone
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