Alla sinistra…
Ma siamo davvero così frastornati dalle cacofonie salviniane, da considerare epocale successo, foriero di chissà quale nuova resistenza, neanche avessimo sconfitto le SS a Stalingrado, una vittoria in Emilia Romagna con qualche punto percentuale?
Duole deludervi, ma non abbiamo vinto proprio nulla.
Il Pd, semmai, con quel po’ di rosa scolorito che inalbera a convenienza, ha mantenuto il controllo di un feudo storico. Ma in quel feudo la Lega ha più che raddoppiato i propri voti, senza nemmeno candidare un Alberto da Giussano o un Guido da Landriano, ma una qualunque Bergonzoni.
Una donna talmente spaesata da far confinare l’Emilia con il Trentino, scambiare Bologna con Ferrara e manifestare la serena convinzione che in Veneto gli ospedali chiudano nel week end. Eppure ha preso il 43%.
Pensate a come sarebbe andata se Salvini, invece di questo fascio di neuroni scompagnati, avesse candidato un normodotato.
Vabbé, diranno molti di voi, sono contento lo stesso. No pasaran! Il Volga ha una sola riva, eccetera eccetera.
In Calabria ha trionfato Jole Santelli. Una che avrebbe poche cose da dire, a parte l’aver eroicamente resistito, per venticinque anni, al magnetismo animale e ai feromoni di quel maschio alfa da Bar Sport che risponde al nome di Silvio Berlusconi.
Molte più cose avrebbero da dire, invece, certi leghisti calabresi che hanno contribuito a questa brillante affermazione. Come Vincenzo Gioffre, uomo forte della Lega a Rosarno, da sempre in affari con il clan Pesce. O Domenico Furgiuele, segretario regionale della Lega, con un suocero condannato per associazione di stampo mafioso.
Nonostante questi brillanti appoggi, la signora Santelli ha preso il 55% dei voti. Ennesima e non certo ultima resa del Sud.
Alle prossime elezioni, qualunque sia il meccanismo di voto, Salvini, anche nella regione a lui più ostile, partirà dal 44%. E in quelle meridionali sa di poter contare su validi aiuti.
Berlusconi…
Era il 26 gennaio 1994, quando l’imprenditore milanese Silvio Berlusconi, con un messaggio tv di nove minuti, annunciò al paese, all’universo, alla Storia, il suo epocale ingresso in politica alla guida di un movimento di nuova formazione, chiamato Forza Italia.
Sono passati solo 26 anni, ma sembrano milioni, un’era geologica, tanto ci siamo assuefatti, da quel giorno, alla continua escalation di volgarità, all’ingravescente sdoganamento di ogni forma di umana bassezza.
Una parabola discendente punteggiata da mafiosi eroici, culone inchiavabili, leggi ad personam, assist agli evasori.
Il ragionier Amilcare del Bar Sport che pontificava su ogni ramo dello scibile, dalla cubatura delle case popolari alla difesa a zona, circondato da un codazzo di plauditores che fingevano di bearsi delle sue flatulenze, spacciandole per essenze esclusive.
In un turbinio che confondeva volutamente liberalismo e libertà, giustizialismo e giustizia, fascismo e governabilità, in cui la tattica calcistica assurgeva a ideologia politica incartando il ceto medio nella pia illusione di avere interessi comuni con un miliardario.
Non possiamo nemmeno gioire, casomai fossimo afflitti da un certo grado di meschinità, per il suo ormai evidente declino. Sorta di gommosa e verbalmente incontinente cariatide, trascinata sui palchi nella speranza che emani qualche ultima, flebile, radiazione elettorale.
Non possiamo, ripeto, gioirne, anche volessimo, perché viviamo assediati dalle sue molte eredità.
Il partito personale, la legislazione arruffona e interessata, la commistione tra pubblico e privato, lo sdoganamento del fascismo, i ministri burattini, la dequalificazione della politica, l’abuso dei decreti, le leggi elettorali riscritte ogni volta in base alle proprie contingenze, le millanta gaffes sulla scena internazionale, il parlamento di inquisiti, le barzellette per soli uomini, gli epigoni sgrammaticati che governicchiavano in suo nome nei comuni e nelle provincie, lo scadimento della scuola, del linguaggio, di quella cultura con cui, come disse uno tra i suoi peggiori ministri, non si mangia.
Accumulate le molte condanne della Legge e della Biologia, riceverà prima o poi anche quella della Storia a cui spesso si è appellato, com’è tipico delle nullità assurte ai vertici, procrastinandone l’inevitabile verdetto a quando non potrà più ledere indici azionari e monopoli commerciali.
Ovvero quei valori che distinguono il famigerato dal famoso, l’imbonitore dallo statista.
Temiamo però che nessuna pena verrà mai applicata per il più grave dei suoi reati, quello antropologico. L’aver fatto regredire, e non di poco, la società italiana, rendendola perfetto ritratto di sé stesso.
Alessio Pracanica
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