Non ho visto il film su Craxi e non so se andrò a vederlo. Di solito amo le opere sui personaggi – conosciuti o sconosciuti, colti o analfabeti, ricchi o poveri – che hanno lasciato alle giovani generazioni un’eredità di valori, di ideali e di principi da spendere per il miglioramento della società. E siccome non ritengo che l’ex presidente del Consiglio abbia un requisito del genere, confesso di non sentirmi stimolato ad assistere ad un film, a prescindere dagli straordinari Gianni Amelio (il regista) e Pierfrancesco Favino (il protagonista principale).
Dalle interviste rilasciate dagli stessi Amelio e Favino si percepisce che non si tratta di una riabilitazione di Craxi ma del racconto della “vicenda umana” o del “dramma umano” di un ex potente in esilio (o latitante, fate voi) ad Hammamet dopo gli scandali di Tangentopoli, di cui Craxi fu ritenuto il simbolo.
Quindi lo spirito di questo articolo è innanzitutto improntato sul rispetto verso un lavoro che merita la massima considerazione, sia perché realizzato da grandi artisti, sia perché raccontare la “vicenda umana” o il “dramma umano” di una persona è sempre un fatto meritorio. Però è chiaro che una cosa è raccontare il travaglio interiore ed esistenziale di un uomo che ammette i propri errori e si pente, un’altra la convinzione di essere un perseguitato, quando diverse sentenze dicono esattamente il contrario.
Detto questo, è chiaro che un lavoro del genere debba scatenare – sui Social ne abbiamo già contezza – delle polemiche su chi difende la memoria di Craxi e su chi fa il contrario.
Quindi – nell’ambito di questo dibattito – ci sia consentito di dire la nostra, con una raccomandazione ai più giovani: andate a vedere il film con spirito critico adeguato, documentatevi, perché il rischio della riabilitazione umana e politica è sempre dietro l’angolo. Sì, perché anche se sono passati vent’anni dalla morte di Craxi, sono in attesa di capire quali sono i meriti di questo “grande statista” di cui parlano ancor oggi i suoi estimatori.
Craxi è stato il leader di un partito glorioso come il Psi che, prima di lui, annoverava uomini come Turati, Treves, Nenni, Pertini e tanti altri, di cui – giustamente – lo stesso partito andava fiero. Per alcuni anni è stato Presidente del Consiglio, per altri, anche se non è stato premier, ha condizionato la politica pentapartita dell’epoca (che vedeva al potere la Democrazia cristiana, il Partito socialista italiano, il Partito repubblicano, il Partito socialdemocratico e il Partito liberale) con il 14 per cento dei consensi.
Sono in attesa di capire quali sono i punti in comune tra chi ha pagato col carcere e con la vita la lotta contro il fascismo, fra chi ha dato libertà e speranze a questo Paese, fra chi lo ha ricostruito dalle fondamenta, e chi ha messo al centro della politica italiana il malaffare.
Sono in attesa di capire cosa c’entri un personaggio spregiudicato e in affari con la mafia – come dicono da decenni i magistrati – e per giunta iscritto alla P2 come Silvio Berlusconi (diretta emanazione di Bettino, sia per la legge costruita apposta per lui, sia per “l’amicizia fraterna” che li legava) e un uomo integerrimo, probo, intransigente come Pertini.
Sono in attesa di capire quale “svolta” abbia dato Craxi al suo partito da quando, nel 1976, all’hotel Midas di Roma, spodestò De Martino e diventò segretario del Psi. Anzi, se una svolta la diede fu quella di avere imposto alla sinistra una virata decisamente a destra dopo l’uccisione di Moro, la conseguente fine del Compromesso storico fra la parte migliore della Dc e del Pci, l’isolamento del segretario comunista Berlinguer e di quello siciliano La Torre (entrambi affrancatisi da Mosca e aperti a una politica nuova, nella quale la “questione morale”, la lotta alla mafia, la pace e l’ambiente erano i punti di riferimento) e l’avvicinamento alla politica più reazionaria.
Sono in attesa di capire quale politica “di sinistra” (o quale politica tout court) abbia fatto l’ex leader socialista se, dopo avere isolato Berlinguer e La Torre, ha amoreggiato per un ventennio con la peggiore Dc, quella di Andreotti, di Gava e di Lima. E sono in attesa di capire perché a un congresso socialista, nel quale l’ex segretario comunista venne umiliato da una selva di fischi, Bettino pronunciò la fatidica frase: “Non mi unisco ai fischi perché non so fischiare”.
Su un paio di cose tuttavia concordo con i suoi estimatori: sulla “linea morbida” proposta da Craxi (assieme ai radicali di Pannella) all’indomani del sequestro Moro, contrapposta alla “linea della fermezza” della Dc (quella che poi prevalse), che prevedeva un dialogo con i terroristi per il rilascio dello statista democristiano; 2) sulla rottura (momentanea, ma ferma) decisa da Craxi nei confronti dell’allora presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, sulla sorte dei sequestratori della nave Achille Lauro sfociata nella “crisi della base Nato di Sigonella”; 3) sul fatto che anche altri grandi esponenti politici italiani avrebbero dovuto pagare e non lo hanno fatto.
A proposito di colpe. Sono in attesa di capire perché uno “statista” come Craxi – che, in quanto tale, avrebbe dovuto dare l’esempio come fece Andreotti, che si difese con successo dalle accuse di essere colluso con la mafia – non si fece processare scappando in Tunisia. Lui disse di essere un perseguitato a causa di una “magistratura politicizzata” (la stessa frase usata da Berlusconi dopo la proverbiale “scesa in campo”) che lo incolpava di avere incassato delle colossali tangenti non solo per il partito, come lui diceva sempre. Ma da che mondo è mondo, che piaccia o no, in un Paese democratico ci si difende nei processi e non dai processi. Ecco perché ancor oggi in Italia c’è chi lo definisce “latitante” e chi “esule”.
A prescindere da come ognuno è libero di pensarla, secondo noi è stato un politico intelligente, colto, ma mediocre, che ha contribuito da “sinistra” a mutare antropologicamente (con i risultati drammatici di oggi) il partito socialista, la politica e la società italiana.
Luciano Mirone
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