Come commentare la sentenza della Corte d’Appello di Palermo che ha condannato il giornalista Rino Giacalone per aver dato del “pezzo di merda” ad un “galantuomo” come il boss mafioso di Mazara del Vallo, Mariano Agate (morto nel 2013), che ha sulla coscienza migliaia di ragazzi morti per il traffico di eroina che ha portato avanti per decenni con altri soggetti di provata statura morale come Nitto Santapaola, Totò Riina e Bernardo Provenzano; che ha ucciso e fatto uccidere altra gente; e che per questo è stato condannato all’ergastolo?
Come commentare la richiesta del pm che per Giacalone aveva chiesto addirittura il carcere (quattro mesi; poi tramutati in 600 Euro di multa)?
Come commentare il precedente verdetto della Cassazione che aveva cassato la sentenza di primo grado (con la quale il giornalista era stato assolto), con la motivazione che qualsiasi mafioso ha diritto alla “dignità”, cosa che “il nostro ordinamento riconosce a qualunque essere umano, anche a chi è appartenuto a una associazione malavitosa sanguinaria e nefasta (o addirittura la capeggia)”, perché “il fondamento costituzionale del nostro sistema penale postula la ‘rieducabilità anche del peggior criminale e, pertanto, non può tollerare, neanche come artifizio retorico, la sua reificazione”?
Difficile commentare tutto questo, sia perché stiamo dalla parte della magistratura, anche quando è toccata a noi – in situazioni, contesti e personaggi completamente diversi – la sorte del giornalista trapanese, e sia perché contemporaneamente siamo dalla parte di Giacalone.
Siamo dalla parte dei magistrati perché siamo convinti che se non fosse stato per loro – con tutte le contraddizioni che il sistema giudiziario si porta dietro – l’Italia sarebbe peggio di come è oggi.
Siamo dalla parte di Giacalone, perché è un giornalista serio, onesto e soprattutto “a rischio” per le sue inchieste sulla mafia.
Ora, con tutta la deferenza che nutriamo verso i magistrati della Cassazione e della Corte d’Appello di Palermo, vorremmo dire che non siamo in Svezia, ma in Sicilia. Se non si tiene in considerazione questo “piccolo” particolare non ne usciamo.
Siamo perfettamente consapevoli che nessun essere umano vada offeso, e che Mariano Agate, per lo Stato di diritto, sia da considerare un essere umano anche se ha commesso crimini orrendi. Così come siamo consapevoli che il nostro sistema penale postula la “rieducazione” (e però in questo caso vorremmo capire come dove e quando Mariano Agate si è “rieducato”). Ma il punto non è questo.
Il punto, come dicevamo, è che siamo in Sicilia. E in Sicilia c’è la mafia. E però fortunatamente c’è anche l’antimafia e ci sono i giornalisti con la schiena dritta come Rino.
Ora, se è vero che questo Paese sarebbe stato milioni di anni indietro senza la presenza di magistrati come Falcone, Borsellino, Chinnici, Terranova, Costa, Ciaccio Montalto e tanti altri, è anche vero che senza la presenza dei giornalisti che hanno perso la vita o che vivono scortati (non facciamo l’elenco perché sarebbe veramente lungo), sarebbe stata molto meno libero, molto meno civile, molto meno democratico di come è oggi.
Un magistrato che giudica un giornalista che dà del “pezzo di merda” a un mafioso sanguinario e terribile come Agate non è obbligato a condannare, così come non è obbligato ad assolvere. Lo dimostra il giudice di primo grado che ha assolto Giacalone “perché il fatto non costituisce reato”, e lo dimostrano i giudici dei gradi successivi che hanno lo condannato. In entrambe le occasioni, tutti, hanno addotto delle motivazioni rispettabilissime. Il verdetto, dunque, in questo caso, dipende dal libero convincimento della Corte.
Ecco il punto. Quando dei magistrati sono chiamati a giudicare un giornalista in guerra (ché di questo si tratta), pensano di applicare il Codice svedese o si rendono conto che siamo in un inferno dove i giornalisti (se va male) vengono uccisi, e (se va bene) vengono minacciati, oltraggiati, ingiuriati, vilipesi e tanto altro?
No, non diciamo che un giornalista antimafia debba essere per forza assolto. Però chiediamo ai magistrati di porsi una semplice domanda: siamo sicuri che un cronista non rischi di essere indebolito e delegittimato da una condanna discutibile, in quanto contraddetta da altri magistrati?
Luciano Mirone
La condanna senza se e senza ma nei confronti di un mafioso come Agate sussisterebbe nella pubblica opinione sia nel caso fosse stato definito delinquente stragista sia nel caso in cui fosse stato definito pezzo di merda.
Ma definirlo delinquente stragista consente di entrare nel merito della condanna e contemporaneamente nel giudizio morale che ne consegue.
Definirlo pezzo di merda prescinde dai fatti e dal merito ed è, oggettivamente, un insulto.
La battaglia contro la mafia non ha bisogno dell’insulto ma, al contrario, del Diritto che essa mafia calpesta.
Ferma, quindi, restando la vicinanza e la stima a Rino, e restando assolutamente al suo fianco nella battaglia contro la mafia, si prenda atto che qualche volta si può pure sbagliare.