Piersanti Mattarella quaranta anni dopo il suo assassinio. Piersanti Mattarella la politica (Aldo Moro, Palermo, il fratello Sergio, oggi presidente della Repubblica; e poi Salvo Lima e Vito Ciancimino). Piersanti Mattarella e il compromesso storico col Pci alla Regione Sicilia. Piersanti Mattarella e la politica per sconfiggere la mafia. Così il suo ex consigliere giuridico Leoluca Orlando, attuale sindaco di Palermo, ricorda uno degli uomini politici più illuminati e rivoluzionari dell’Italia repubblicana.
“Grazie ad Aldo Moro si crearono le condizioni affinché Piersanti Mattarella diventasse presidente della Regione. Poi arrivò quel terribile 16 marzo 1978, quando Moro fu sequestrato. Corsi da Piersanti e l’abbracciai: ‘Sono preoccupato per Moro’. E lui: ‘Non soltanto per lui, comincia a preoccuparti anche per me’.
Il 9 maggio: il corpo senza vita del presidente della Democrazia cristiana venne trovato in una Renault rossa, in via Caetani a Roma; quello di Peppino Impastato venne trovato a pezzi a Cinisi. La notizia di Moro era su tutti i giornali, quella di Peppino non esisteva, anche a causa di un depistaggio dei carabinieri.
La domenica successiva si votava per il Consiglio comunale di Cinisi, Peppino – nel frattempo ucciso – restava candidato nella lista di Democrazia proletaria.
A Cinisi c’era un sindaco moroteo, Salvo Mangiapane, uno dei pochi punti di forza della nostra componente. Andammo con Piersanti per fare un comizio. Trovammo in piazza un gruppetto di Democrazia proletaria che urlava contro di lui, Democrazia-cristiana-assassina-Democrazia-cristiana-mafiosa, e tanti altri slogan di questo tenore. Piersanti fece il comizio, continuamente interrotto, alla fine scendemmo dal palco, mi guardò e mi disse: ‘Hanno ragione, ma loro non sanno che farò la stessa fine di Peppino. Peppino Impastato si è messo contro la sua famiglia e io contro il mio partito’ (…).
(…) Piersanti prese le distanze da quella storica identificazione. Esattamente come Peppino Impastato. In queste situazioni la discriminante è la cultura e la consapevolezza dei tempi che cambiano e dell’esigenza di nuovi valori. Piersanti capì talmente bene e decise con tanta forza che sembrava molto più avanti del tempo in cui viveva. Considerava l’accordo con il Pci una garanzia di lotta contro la mafia. Anche per lui la vera prudenza era la rottura, aveva un atteggiamento tanto moderato quanto eticamente intransigente. Aveva un grande rispetto per la politica.
Dopo l’assassinio di Moro, il Pci ruppe il Compromesso storico sia a livello nazionale sia a livello regionale e tolse il sostegno al governo Mattarella. Fu un momento terribile. Ricordo la faccia dei parlamentari democristiani quella sera, mentre scendevo la scalinata di Palazzo dei Normanni (sede dell’Assemblea regionale siciliana, ndr). Erano ostentatamente contenti perché si erano liberati dell’alleanza col Pci. L’impegno per la legalità di Piersanti Mattarella era una missione e una scelta di vita, non un’esigenza legata ad alleanze politiche. Uscendo da quel governo, il Pci lasciò solo Piersanti, in una Democrazia cristiana che era più mafiosa che antimafiosa.
Elezioni politiche del 1979. Era venuto da poco a Palermo l’allora segretario nazionale della Dc Benigno Zaccagnini. Eravamo a casa di Piersanti, lui, Sergio, io, e il professore Salvatore Butera, all’epoca consigliere economico di Piersanti.
Disperatamente cercammo di convincere Piersanti ad andarsene, a candidarsi alle nazionali. Era molto combattuto. Andandosene avrebbe svolto un ruolo nazionale, restando avrebbe continuato la svolta. ‘Il segretario mi ha detto che al partito serve che stia ancora qui’.
Ebbi una sensazione di scoramento e gliela espressi, ma lui con grande convinzione guardava avanti: ‘Il prossimo anno c’è il Congresso e potrei fare il vice segretario nazionale della Democrazia cristiana insieme con Zaccagnini’. E questo, in qualche modo, era un sollievo per dire: beh, alla fine avrò una garanzia nazionale. Forse anche per questo qualcuno l’ha ucciso prima”.
(Tratto dal libro “Il futuro è adesso” di Leoluca Orlando e Luciano Mirone. Melampo editore)
Si continua a parlare di giudici antimafia, di preti antimafia, di politico antimafia, di cittadini antimafia… Ma quando si parla di Stato si parla di collusioni stato/mafia, di servizi deviati, di cinismo politico o addirittura di razzismo politico. Poi lo stato vuole indossare il vestito dell’antimafia e crea una commissione parlamentare antimafia, cose se lo stesso concetto di antimafia fosse un concetto che va oltre la giusta condizione per l’esercizio della politica, del patrimonio etico che dovrebbe appartenere ad ognuno di noi a prescindere. Lo Stato oggi ne esce ancora una volta sconfitto perché appare più come il garante dell’ingiustizia, delle differenze socio/politiche ed economiche del paese. Incapace di fare pulizia all’interno del corpo istituzionale. LA VERITÀ perduta è la testimonianza di una società politica ancora lontana da una completa maturazione della società di diritto ed esprime la scarsa attitudine degli stessi candidati all’esercizio stesso della politica. Dal dopoguerra a oggi un continuo attacco alla democrazia, una continua azione di destabilizzazione dello stato di diritto, ed è facile che il poi, il popolo asino grida “si stava meglio quando c’era il fascismo”. Da Piersanti Mattarella a Falcone e Borsellino, quante volte lo stato deviato a usato i servizi deviati per destabizzare il diritto dei singoli ben saldi ai principi costituzionali, a beneficio degli scontenti di un epoca fatta di sole privazioni e mortificazioni della condiziona umana quale è stato il fascismo?