Bisogna osservare la foto di apertura di questo articolo per rendersi conto che la felicità della vita, alla fine, prende il sopravvento sulla tragicità della morte, non per rimuoverla, ma per portarci a vederla con gli occhi dolci di San Francesco: “Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte…”. La vita che guarda con gioia la morte, che comunque fa parte della vita.
Bisogna osservare gli occhi di Chiara e di Agostino (trentenni di Belpasso), giunti ieri sera all’aeroporto di Catania, dopo un viaggio avventuroso iniziato lo scorso 17 febbraio in Oriente (destinazione Thailandia e Vietnam), ma interrottosi improvvisamente in Laos (dove gli italiani erano trattati come untori) a causa del Coronavirus, per capire come – mai come adesso – vita e morte si intrecciano o fanno parte di un unico disegno (per i credenti), perché comunque sono entità lontane e vicine al tempo stesso.
Mai come adesso abbiamo nella mente i volti di persone care, di persone conosciute, di persone mai viste, che tutt’a un tratto hanno perso la vita a causa di questa nuova peste che sta flagellando l’umanità. Persone che fino a ieri erano con noi, gioivano, piangevano, passeggiavano, scherzavano e che adesso sono state inghiottite dalla terra per un sortilegio del destino. Persone che non hanno avuto neanche la gioia di un funerale, di un fiore, di un parente che piangesse dietro le loro bare. Persone che hanno lasciato un vuoto immenso nelle loro comunità e nelle loro famiglie.
Ma mai come adesso – proprio perché la morte sta alitando a un passo da noi – abbiamo la possibilità di percepire quello che spesso diamo per scontato: il valore e la bellezza della vita. Questo trasmettono i volti di Chiara e di Agostino. La consapevolezza del dolore e la dolcezza di chi fa vivere e rivivere le persone care con un semplice sorriso.
Nella foto: Chiara Sapienza e Agostino Blando ieri sera all’aeroporto di Catania
Luciano Mirone
Quantomeno curiosa, questa vita! Prima aspetti con impazienza l’arrivo di una gioia e poi, quando questa arriva, non puoi esprimerla. Sicché l’urlo liberatorio ti rimane strozzato in gola.