È istruttivo, mentre siamo distratti dalla tragedia del Coronavirus, leggere la recente sentenza (24 marzo 2020) con la quale la seconda sezione penale della Corte d’Appello di Catania – presidente Dorotea Quartararo, consiglieri Antonino Fallone e Antongiulio Maggiore – ha deciso di annullare la confisca dei beni (150 milioni) dell’editore Mario Ciancio, stabilita due anni fa dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale etneo, il quale considera il “padre padrone” del quotidiano la Sicilia “colluso con la mafia” e “socialmente pericoloso”. Istruttivo e piacevole, perché mentre le tivù, i giornali, i Social sono concentrati sul futuro dell’umanità, ogni tanto non fa male diversificare certe letture.

La Corte d’Appello manda in frantumi la sentenza di primo grado spiegando che non c’è “collusione”, al massimo “contiguità”, “vicinanza”, “amicizia”, “cordialità” (termini usati svariate volte nelle 119 pagine della sentenza) fra Ciancio e Cosa nostra, quindi la confisca dei beni è del tutto ingiustificata. 

Una sentenza – scrive Sebastiano Gulisano – che ne ricorda un’altra risalente a una trentina di anni fa, quando un altro giudice disse che i Cavalieri del lavoro di Catania agivano in “stato di necessità”, cioè in una condizione di “succubanza” che porta gli imprenditori a scendere a patti coi boss.

Il primo numero de I Siciliani. Sopra: l’editore catanese Mario Ciancio

Eppure già allora esistevano gli elementi (basta leggere le inchieste de I Siciliani) per affermare che Rendo, Costanzo, Graci e Finocchiaro avevano monopolizzato i grandi appalti grazie a un solido patto instaurato con la politica e la con mafia. Basta rileggere l’intervista che il generale Dalla Chiesa rilasciò a Giorgio Bocca poco prima di morire (“Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo”).

Oggi la storia si ripete, ma con altre parole. Al posto dei “quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, come li definì Giuseppe Fava in memorabile articolo, ci sarebbe un altro signore (almeno secondo alcuni magistrati), il dottor Mario Ciancio, ritenuto “il quinto cavaliere”, uno che rispetto agli altri ha avuto l’intelligenza di essere più “politico”, più diplomatico, più felpato, meno spaccone, che ha sempre comandato e mai governato, messo sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa (tutt’ora in corso), anche se bisogna dimostrare fino a che punto si sarebbero spinti i suoi presunti rapporti Cosa nostra. 

E però ci sono i magistrati della Corte d’Appello che dicono che Ciancio è un soggetto appartenente a una ineffabile “zona grigia” che sta in mezzo fra il bene e il male.

Eppure fin dagli anni Settanta, secondo quanto emerge dalle indagini, Ciancio viene considerato “l’uomo più potente della Sicilia”, più potente di un presidente di Regione, di un sindaco, di un ministro, al punto che una volta lui stesso fra il serio e il faceto disse: “I presidenti di Regione passano, Ciancio resta”, salvo a correggersi: “Ma no, sono solo un uomo tranquillo”.

Basti pensare che il palazzo di viale Odorico da Pordenone (dove è ubicata la sede de La Sicilia) è sempre stata meta obbligata di principi, di principesse (mitica la visita di Carlo e Diana), di Capi di Stato, di ministri, di governatori, di sindaci, di assessori e di tanto altro. In quel palazzo si è sempre decisa la destinazione d’uso dei suoi terreni e i Consigli comunali si sono limitati a ratificare.

Adesso la formula dello “stato di necessità” è implicita, ma la sostanza è sempre la stessa: all’inizio della sua attività imprenditoriale, Ciancio paga i mafiosi per garantirsi la “protezione”, poi però instaura un rapporto “cordialmente consolidato”, di “amicizia”, con Calderone, con Santapaola, con Ercolano, insomma col gotha di Cosa nostra catanese che uccide e fa uccidere i ragazzini che si permettono di scippare la borsetta alla madre di “don Nitto”, i carabinieri di scorta al furgone blindato che traduce l’avversario storico di Santapaola da un carcere a un altro, un giornalista libero come Giuseppe Fava, il generale Dalla Chiesa, il potentissimo presidente dell’Eni Enrico Mattei.

Eppure dalla lettura della sentenza si ha la netta impressione che si tratti di “un’amicizia” senza doppi fini, senza do ut des. Se Ciancio col suo giornale censura certe notizie sulla mafia, o le edulcora, o le falsifica, mica è “consapevole” di quello che fa, agisce “cordialmente” nei confronti dei boss, ma mai col fine di essere “funzionale” agli “interessi della struttura criminale”.

La cattura di Santapaola

Lui, secondo la Corte d’Appello, è diventato potente “solo” per le aderenze politiche di cui dispone, non per i rapporti con Cosa nostra. Eppure dalle stesse carte si coglie benissimo che è circondato da mafiosi di ogni risma. Per le operazioni più disparate: movimento terra, perfino un finto attentato a suo danno (per accreditarsi come vittima della mafia, secondo i magistrati), compravendita di terreni, costruzione di centri commerciali, realizzazione di villaggi per i soldati americani di stanza a Sigonella. Ma mentre per i giudici di primo grado, Ciancio si è prestato a riciclare i soldi del clan Santapaola, per quelli d’Appello questa circostanza è da escludere: l’editore è ricco di famiglia, ha ereditato feudi sterminati che ha saputo fare fruttare, ha uno stabilimento editoriale di prim’ordine, i suoi arricchimenti, anche quando tocca picchi altissimi, sono giustificati, certificati.

A parere della Corte d’Appello manca “la prova” del rapporto d’affari fra l’editore e la mafia, il tassello da incastonare per dimostrare che Ciancio abbia agito (“penalmente”) a favore di Cosa nostra. Tutt’al più una condotta disdicevole sul piano morale e culturale. Nient’altro.

Luciano Mirone

1^ puntata. Continua