Ma questo maledetto coronavirus sarà sconfitto a breve o ci vorranno tempi lunghi? Fra qualche settimana potremo andare al lavoro, al mare, allo stadio, al parco o dovremo continuare a stare tappati in casa?
Ieri abbiamo proposto le interviste, pubblicate qualche ora prima dall’Adnkronos, di due autorevoli scienziati – da un lato Francesco Le Foche, primario di immuno-infettivologia al day hospital del Policlinico Umberto I di Roma, e dall’altro Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) – che esprimevano delle tesi interessanti ma opposte, tanto che alla fine vi confessiamo di essere stati assaliti da improvvisa confusione che neanche la nottata è riuscita a eliminare.
Alla tesi del prof. La Foche, secondo cui il Covid-19, come tutti i coronavirus, sta perdendo la carica propulsiva dei primi tempi, viene contrapposta l’antitesi del prof. Ghebreyesus, il quale, pur ammettendo che la forza del virus (almeno in Italia) sta scemando grazie alle misure di contenimento imposte dal governo, non è altrettanto ottimista sui tempi di sconfitta definitiva.
Da un lato il primario dell’Umberto I di Roma sostiene che le temperature calde favoriranno il ridimensionamento o addirittura la morte della pandemia, dall’altro il direttore generale dell’Oms afferma che ci vorranno tempi lunghi per tornare alla normalità.
E poi, come in un crescendo rossiniano, La Foche dice che quest’estate, con molta probabilità, potremo andare al mare, mentre Ghebreyesus sembra più prudente. In pratica, le due teorie che attualmente stanno spaccando la scienza.
I due pareri – come facciamo sempre con i nostri articoli – sono stati postati su Facebook: a giudicare dai commenti e dal numero dei lettori, dobbiamo dire che quella del prof. La Foche ha riscosso un netto successo rispetto all’altra, poiché, come è ovvio, ha suscitato entusiasmi e creato aspettative dopo oltre un mese di “carcere”.
Un nostro amico, Fabio Roberto Costanzo, sui Social, oltre a mettere in dubbio le parole del primario dell’Umberto I (dato che in certi Paesi caldi il coronavirus si sta diffondendo lo stesso), ha chiesto al sottoscritto, “E tu cosa ne pensi?”, domanda che, confesso, mi ha messo in crisi, sia perché non sono uno scienziato, sia perché di fronte a una materia così misteriosa preferisco avere un approccio da cronista e non da tuttologo. L’esperienza, in questi casi, è maestra di vita, specie se sei al cospetto di un argomento che sta spaccando il mondo scientifico, il mondo politico, il mondo calcistico, l’Europa, l’America, le famiglie.
E però vi confesso che è da diversi mesi (all’incirca da gennaio-febbraio, da quando l’Oms ha lanciato l’allarme su una epidemia che “avrà degli effetti più dirompenti degli attentati dell’Isis”) che cerco di dare una risposta. Peccato che quando credo di averla a portata di mano, arrivi lo scienziato di turno (“Il coronavirus? Una comune influenza di stagione”) che rimette tutto in discussione, creandomi pure certi complessi di inferiorità di fronte a chi afferma: “Che ti avevo detto?”.
Ricordate all’inizio, quando il governo parlò di contenere subito il fenomeno, salvo a fare marcia indietro un paio di giorni dopo, quando gli indicatori economici cominciarono a dare il segno meno? E ricordate come il calcio – misuratore per degli umori del Paese – non riusciva a rassegnarsi allo stop? All’inizio fece finta di niente (e i risultati dei contagi non tardarono ad arrivare), poi organizzò le partite a porte chiuse, come se il contagio dovesse risparmiare solo i calciatori, infine fu costretto ad ammettere l’evidenza. Stessa cosa le industrie della Lombardia, salvo decessi e positività saliti alle stelle nel giro di qualche settimana.
E ricordate quando si disse che quello spostamento di centinaia di studenti da Nord a Sud avrebbe provocato una ecatombe, altra tesi smentita – almeno finora – dai fatti?
E la bislacca teoria del premier britannico Boris Johnson sull’ “immunità di gregge”, e la partita surreale fra Liverpool e Atletico Madrid che fece disputare come se nulla fosse, e alla fine il virus che non ha risparmiato neanche lui?
E le minimizzazioni di Trump, che come un boomerang gli stanno sbattendo violentemente in faccia?
E l’inchiesta giornalistica, secondo la quale il virus è stato costruito in un laboratorio statunitense, e la contro inchiesta che diceva “no, è stato prodotto in Cina”, e il servizio di Rai3 (poi smentito dalla stessa tivù di Stato) che parlava di “virus di laboratorio”?
E i video virali su certi “farmaci miracolosi” usati in Giappone, bufale pazzesche alle quali milioni di persone hanno creduto?
E le strumentalizzazioni di una parte politica contro l’altra, le cazzate inaudite di certi pseudo intellettuali e giornalisti, cui c’è gente ancora disposta a dar credito?
La verità è che mai argomento è stato più contraddittorio, più ingannevole, più paradossale del Covid-19, poiché si tratta di un virus subdolo, infido, pirandelliano: quando pensi di aver capito la verità, ecco che improvvisamente ne spunta una contraria che ti disorienta. Al punto da portare l’ottimo professor Galli, infettivologo dell’ospedale Sacchi di Milano a dire: “In quarantadue anni di professione non ho mai visto nulla di simile. Peggio dell’Aids, più virulento, e poi questa differenza di contagi tra uomini e donne è molto strana”.
E allora la mia risposta, caro Fabio – per quello che può valere – , parte dalla certezza di non avere certezze; si muove fra mille dubbi e in mezzo a un universo di silenzio, pur attorniato dal bailamme delle parole e delle sicurezze; dall’umiltà di un confronto col tempo. A chi, senza essere mosso dal dubbio, dice che tutto va riaperto “ora e subito”, preferisco la saggezza di chi preferisce ascoltare, osservare ed aspettare prima di dare il giudizio definitivo. Alle certezze di chi si crede invulnerabile, preferisco la serenità di chi guarda la vita col sorriso.
Luciano Mirone
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