Dispiace (e non poco) quando il direttore di un giornale viene destituito senza una spiegazione. Fa male, soprattutto alla democrazia, quando questa dinamica si verifica in un momento in cui quella persona è esposta a minacce (anche di morte) provenienti da certe frange fasciste che nel nostro Paese prendono sempre più sopravvento. Quello che è capitato al direttore responsabile di Repubblica, Carlo Verdelli, è davvero incredibile: di solito, quando il direttore di una testata riceve delle minacce, incassa innanzitutto la solidarietà del suo editore. In questo caso è successo esattamente il contrario. Il nuovo, anzi il nuovissimo editore (la famiglia Elkan Agnelli, che sostituisce lo storico proprietario Carlo de Benedetti) gli dà il benservito e lo manda a casa senza una spiegazione, legittimato dal fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari (che di quel giornale fu direttore dalla sua nascita, 1974, fino al 1994), il quale nell’editoriale odierno, l’unica cosa che ha saputo dire è che la linea del giornale non subirà variazioni col nuovo direttore Maurizio Molinari, che da la Stampa – quotidiano storico della famiglia Agnelli – è passato adesso a Repubblica.
Scalfari, pur esprimendo “stima professionale” (senza le due parole che in queste circostanze l’accompagnano, “e umana”, malgrado le minacce, la solidarietà espressa dalla redazione e dall’informazione nazionale, e l’ottimo sforzo di Verdelli di risollevare un giornale da una crisi senza precedenti), non si spinge oltre. Lo fanno altre testate, ma lui, Scalfari, che di quel quotidiano è stato l’anima, non aggiunge altro. E francamente non ce ne spieghiamo i motivi.
Molti hanno scritto che con questa scelta discutibile sul piano democratico (ma legittima sul piano imprenditoriale), questo giornale “liberal socialista”, come lo ha sempre definito Scalfari, si sposta verso destra, non tanto perché i nuovi editori siano di destra (gli Elkan Agnelli, finora, sui temi politico-istituzionali – al netto dei loro legittimi interessi – hanno tenuto un profilo ben più sobrio ed equilibrato rispetto a quello da imprenditoria selvaggia simboleggiata da Silvio Berlusconi, così come il loro storico quotidiano torinese gestito fino a due giorni fa da Molinari), quanto perché è di destra il modo con il quale è stato defenestrato Verdelli e il modo con il quale, con l’acquisto di questa nuova testata, finiscono con l’essere speculari al Cavaliere su un tema molto delicato su cui si discute da decenni: la concentrazione editoriale nelle mani di pochi gruppi imprenditoriali. Che in un Paese democratico non dovrebbe esistere.
Alcuni, oltre che di svolta a destra, parlano di “scelta esiziale” per il futuro del giornale. Ma su questo ci permettiamo di dissentire, perché, a nostro avviso, le scelte esiziali di Repubblica non cominciano di certo oggi. Oggi casomai avvertiamo l’effetto di certe decisioni, che si concretizza con una tiratura quotidiana che mediamente non supera le 200mila copie, confrontata con la tiratura che superava il milione di copie all’epoca della direzione Scalfari.
Si dirà: altri tempi e altre storie. Ma si dovrebbe spiegare meglio questa causa che ha prodotto un effetto così catastrofico. Parlare di politica “liberal-socialista” – con tutto il rispetto per l’editoriale odierno di Scalfari – significa poco. Per noi che non ci intendiamo di politica, esiste il buon giornalismo e il cattivo giornalismo, stop.
La Repubblica dei primi trenta, trentacinque anni di vita ha fatto dell’ottimo giornalismo. Quella successiva non ne ha fatto di pessimo, ma non è mai riuscita ad eguagliare il livello dell’epoca precedente: diciamo che si è inserita in una zona grigia dalla quale non l’hanno tirata fuori i tanti restyling effettuati, i nuovi direttori, i nuovi giornalisti, i “nuovi corsi”.
Perché?
1) Non è facile sostituire dei grandi giornalisti che per tanti anni hanno caratterizzato questa testata: Giorgio Bocca, Giampaolo Pansa, Miriam Mafai, Antonio Cederna, Alberto Cavallari (dopo la direzione del Corriere della Sera), Gianni Rocca, Mario Pirani, Sandro Viola, Natalia Aspesi, Anna Maria Mori e tanti altri.
Giornalisti che hanno rappresentato l’ossatura di Repubblica, fino a creare l’identità stessa del quotidiano. Leggere un pezzo di questi “mostri sacri” era come accostarsi a un testo di letteratura, con il pregio di essere dentro la notizia dall’inizio alla fine. Leggere un pezzo su Andreotti, su Salvo Lima, su Bettino Craxi o sull’inchiesta sulla strage di piazza Fontana voleva dire stare incollati alla carta dalla prima all’ultima riga, con la voglia di non staccarsi più.
L’identità di una testata non è una categoria astratta: è l’anima di un giornale, formata da tante anime, che sono gli articoli, che in certi casi lasciano il segno, perché costituiscono una lezione di vita, prima che di giornalismo. Ma poi ci sono anche le foto, le vignette, la grafica, l’impaginazione.
Molti di questi giornalisti avevano vissuto la guerra, qualcuno (Bocca) era stato partigiano, sapevano la differenza fra la civiltà contadina e il consumismo, avevano conosciuto il dramma del terrorismo e della mafia, ma nessuno aveva fatto le scuole di giornalismo, dove impari tutto del Nasdaq, ma non sai nulla della strada. E se non sai nulla della strada, come la fai un’inchiesta, come la leggi la società?
Ci dispiace dirlo, ma i cronisti arrivati dopo –bravi, senz’altro, con delle eccellenze tuttora in campo – non sono mai riusciti ad eguagliare lo stile e i contenuti dei loro padri: sanno tutto del Nasdaq, ma un po’ meno della strada.
2) Tutto questo non è stato capito innanzitutto dai fondatori di Repubblica: l’ex editore Carlo De Benedetti e l’ex direttore Eugenio Scalfari, autore ancor oggi – a novant’anni suonati – degli editoriali della domenica, articoli sempre più filosofeggianti e sempre meno calati nella realtà (come sono lontani quei pezzi leggendari sulla politica italiana!). Certo, sostituire una generazione di fuoriclasse come quella precedente non era compito agevole, ma se in una squadra devi sostituire Maradona, non puoi farlo attraverso i sistemi ordinari: devi guardarti attorno e scegliere il meglio. È successo? I numeri dicono di no. Sono stati presi dei bravi cronisti, in massima parte usciti dalle scuole di giornalismo, e sono stati ignorati quelli che avevano dimostrato sul campo di fare giornalismo ad altissimi livelli. Chi? Un esempio su tutti: quelli usciti dalla scuola de I Siciliani di Giuseppe Fava. Perdonate i limiti di questa analisi, ma nel panorama italiano degli anni Ottanta, Novanta e Duemila non abbiamo visto una generazione di giornalisti migliore. Gente formatasi nell’avamposto catanese dove mafia, politica corrotta, massoneria, P2 e servizi segreti deviati erano un tutt’uno, gente operante dentro un modello culturale di grande avanguardia di cui Giuseppe Fava era stato il fondatore. Invece il quotidiano di Scalfari ha pensato di vivere di rendita e si è adagiato, con i risultati che vediamo.
3) Repubblica ha invece privilegiato i rapporti con il gruppo alternativo, quello dell’editore catanese Mario Ciancio (“amico dei mafiosi” secondo i magistrati), assecondandone la velleità di monopolio e censurando per decenni l’edizione siciliana di Repubblica, stampata a Palermo, ma non distribuita nelle province sotto il controllo dell’editore catanese.
4) Il risultato è stato quello di leggere un giornale sempre più ricco di grafici sulle evoluzioni o involuzioni dell’aria fritta e sempre più vuoto di anima. Sempre più omologato sulle posizioni del Pd e sempre meno equidistante da un sistema che spesso si è rivelato funzionale a quello berlusconiano con il quale – in Sicilia, e non solo – la sinistra ha inciuciato alla grande, risucchiando pure Repubblica.
5) Il colpo di grazia è stato dato quando lo stesso Scalfari, pur di difendere l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, non ha esitato a scagliarsi contro i giudici antimafia e a giustificare la Trattativa Stato-mafia.
Luciano Mirone
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