Fase 2 della pandemia da Covid-19. Sabato sera. L’interno di un ristorante. Le persone sono accalcate come le sardine sotto sale nel barilotto di legno. Il titolare ogni tanto fa un sopralluogo ai tavoli, non per accertarsi del distanziamento fra clienti, ma per chiedere alla signora il motivo per il quale non ha mangiato la pizza (“Guardi che in questo locale usiamo solo farine di altissima qualità”), saluta garbatamente e passa oltre.
La gente continua a parlare, il campionato che rischia di saltare, Trump misteriosamente guarito dopo tre giorni, il governatore Zaia che dice: “Siamo in guerra”. Ci sono tavolate di quindici persone nelle quali la distanza fra un commensale e un altro non c’è, non esiste, ogni tanto qualcuno consulta il telefonino per vedere il numero dei contagi, 37 milioni in tutto il mondo, quasi seimila in Italia in un giorno, ventinove morti (sempre in un giorno), per non parlare dell’inferno della Francia, eppure qui è come se fossimo in una bolla di follia, avete presente il Titanic che sta affondando mentre l’orchestra continua a suonare?
Si vuole continuare a vivere e a divertirsi, ma ha un senso se fra quindici giorni (il tempo di fare incubare l’eventuale virus) potrebbe finirti in isolamento o in un letto d’ospedale (se va bene)? Evidentemente sì, se in questo locale (non l’unico, anzi siamo certi che ci sono degli ottimi esempi) di questo delizioso paese alle falde dell’Etna (non l’unico), ci si crede immortali, con qualcuno che asseconda questa schizofrenia collettiva acuita dal numero dei negazionisti in aumento.
E le forze dell’ordine dove sono? In un ristorante che deve essere chiuso seduta stante, carabinieri, polizia e vigili urbani sono assenti, anzi no: i vigili sono troppo impegnati a multare chi – oltre la mezzanotte – sfora di dieci minuti l’orario previsto dal biglietto delle strisce blu.
Inutile ripetere che i mesi di sacrifici della scorsa primavera stanno risultando vani, che le follie estive viste nelle spiagge, nelle piazze e nelle discoteche all’aperto stanno continuando in autunno nei locali al chiuso, che i “neri” non c’entrano niente con la diffusione del virus. I veri responsabili di questa repentina ricaduta siamo noi, una parte del mondo scientifico e le istituzioni: tutti ci siamo illusi di avere sconfitto il virus dopo il lockdown, e ora continuiamo con questa incredibile chimera che, convivendoci, possiamo venirne a capo.
Certo, non si può deprimere l’economia, è giusto scegliere la classica via di mezzo tra il rigore e l’indulgenza. Il problema è che se vengono omessi perfino i controlli, se vengono lasciati aperti dei locali che dovrebbero essere chiusi, si fa una scelta precisa tra il profitto e la salute. Si scelgono i soldi, ma ipocritamente si lancia l’allarme sulla salute. Con le solite raccomandazioni: laviamoci le mani, indossiamo le mascherine e stiamo distanziati dagli altri di almeno un metro e mezzo.
Ma mentre mangi al ristorante, mentre starnutisci a dieci centimetri di distanza dagli amici, perché non c’è lo spazio per poterlo fare sul braccio e allora sei costretto ad usare la mano, come devi comportarti? È chiaro che in casi come questi – per evitare altre tragedie – dovrebbero scattare i controlli. Ma se i controlli non scattano, ti chiedi se tutto questo è frutto di negligenza o di una scelta precisa, come sta succedendo col clima, e come è successo (e continua a succedere) con l’Ilva, con Marghera, con Augusta e con Gela, con la solita, stucchevole domanda: “E’ meglio morire di cancro (o di Covid) o morire di fame?”.
Per la cronaca: alla fine della cena, il titolare del locale ha chiesto alla comitiva: “Tutto a posto?”. “Glielo diremo fra quindici giorni”.
Luciano Mirone
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